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Paese che vai, cibo che porti

Tutti sanno che l’italiano che va all’estero, per una settimana, un mese, un anno o per sempre non può fare a meno di taralli, tarallucci e vino, di olio extravergine di oliva e caffè, di grana e soppressata,  di alcune marche di biscotti, di peperoncino tritato, origano, basilico e rosmarino, di riso Carnaroli,  bottarga e salsicce, guanciale di Amatrice e pecorino (se no, come mangi l’amatriciana?). Vogliamo parlare della moka o della caffettiera napoletana?  O dello sgrassatore Chante Clair?

La lista è lunga e non lascia spazio a sorprese se non fosse che  non si tratta affatto di una semplice lista, un elenco di articoli, tipo supermercato.  A volte esprime una vera filosofia di vita, una “cura contro la nostalgia”, ogni prodotto funziona come la madeleine di Proust, quel biscotto inzuppato nel tè, che ha il potere, con il suo profumo e il suo sapore, di riportare nella memoria il tempo perduto e felice dell’infanzia.

Quando qualche parente italo-americano di mio marito viene in Italia da New York, al ritorno porta cose che non hanno solo un nome già saporito, ma anche una storia.  Per esempio la parmigiana di melenzane di zia Giannale chiacchiere o le zeppole di zia Rina. La marmellata di fichi di zia Nunzia.  Le freselle comprate nello stesso panificio, quello che c’è nello stesso posto da sempre. La valigia di ritorno dall’Italia non è piena solo di cose vitali, “indispensabili”, ma soprattutto di ricordi che fanno vivere delle gioie irrinunciabili per un italiano all’estero.

Possono sembrare vizi e capricci culinari e ammetto che anche io li giudicavo come tali all’inizio. Ma poi, ci sono cascata anche io. Quando siamo andati a Londra, due anni fa, a Pasqua, con degli amici, abbiamo messo in valigia: la pastiera napoletana, il casatiello, la caffettiera ed il caffè. Quando vado in Romania porto il parmigiano, il grana, olive di Gaeta, limoni freschi, pasta mista (che non trovo mai nei supermercati rumeni), peperoncino tritato, origano, la marmellata di arance. I miei, concordo,  sono dei vizi, ma non posso farne a meno. Ogni volta che svuoto le valigie, mi ritornano in mente le stesse immagini: a metà degli anni novanta,  lavoravo come interprete per una ditta italiana a Cluj, in Transilvania. I due soci erano bergamaschi e all’inizio venivano spesso in Romania, dove rimanevano mesi, per seguire da vicinocibo emigrante gli affari. Arrivavano sempre in macchina ed  era un vero spettacolo vederli scaricare il portabagagli. C’erano: tante casse d’acqua, naturale e frizzante, olio extravergine di oliva, passato di pomodoro, caffè, pasta, riso, grana padano, formaggi, insaccati, banane, biscotti, fette biscottate, detersivo, ammorbidente…  e l’immancabile caffettiera. Qui farei una breve parentesi, un po’ anche per giustificare la presenza della caffettiera nelle loro valigie: all’epoca in Romania si beveva ancora il caffè turco, una specie di infuso di caffè, preparato in un pentolino alto e stretto in rame,  provvisto di un lungo manico, in cui si mettevano due parti di caffè, una di zucchero e circa una dozzina di acqua. Si mescolava e si portava ad ebollizione. Si levava dal fuoco e si lasciava raffreddare, in modo che il sedimento si depositasse sul fondo delle tazzine. Assumeva forme particolari che potevano essere interpretate dalle famose “ghicitori în cafea” (quelle che leggevano nel caffè e predicevano il futuro). Non sapevano gli italiani che cosa si perdevano rifiutandosi di bere in Romania il caffè turco! O forse sì…

Lo so che vi sembrerà una barzelletta, ma la prima volta che ho preparato il caffè in una caffettiera napoletana, stava per esplodere! Avevo messo l’acqua sopra, il caffè nel filtro e aspettavo che scendesse nel recipiente di sotto! Supposto anche che la caffettiera napoletana in Romania fosse proprio indispensabile (ma magari anche un corso di preparazione del caffè per i rumeni…), questi italiani passavano  agli occhi degli amici rumeni  per dei viziati e maleducati,  che non si fidavano nemmeno di bere la nostra acqua, che non avevano nessun interesse per la nostra cucina e che volevano vivere da perfetti italiani in Romania!  Adesso, guardando indietro, dopo vent’anni, li capisco:  non si tratta di un vizio, è piuttosto “nostalgia gastronomica“!

 




“Pui pe sticlă”, c’è un pollo sulla mia birra!

pollo sulla bottigliaQuando ho cucinato per la prima volta in Italia il pollo sulla bottiglia (come una ricetta rumena particolare, a grande richiesta) sapevo che si sarebbe arrivato a parlare di Dracula o, meglio, di Vlad l’Impalatore. “Si vede che siete i suoi eredi, ha detto un amico, impalate persino i polli…”. La scena era tragicomica: il povero pollo che troneggiava nel forno su una bottiglia di vetro e tutti che lo guardavanocuriosi…tra battute, alcune originali, alcune “prestate” dai comici (vi ricordate la parodia dei Negramaro che faceva qualche anno fa Checco Zalone, quando cantava la canzone Lu pollu cusutu n’ culu ?) ed esclamazioni che si alternavano tra terrore e divertimento, passando per la pietà per il povero pollo. Il dubbio più frequente che veniva agli intenditori di cucina era perché sottoporre il pollo ad un trattamento simile, quando c’era l’alternativa meno crudele del pollo arrosto? Quando hanno cominciato a mangiare hanno capito la differenza. Il pollo cucinato sulla bottiglia ha due grandi qualità: è morbido ed aromatico dentro, croccante e saporito fuori. In più, il vino o la birra con la quale deciderete di riempire la bottiglia, con l’insieme di erbe aromatiche, daranno un profumo particolare alla carne.

 La ricetta è molto semplice, ma la preparazione del pollo necessita un paio d’ore prima di metterlo nel forno.

  • Lavate bene il pollo, che sceglierete in base alla grandezza del vostro forno. Spalmatelo, all’interno e all’esterno, con olio e un mix de erbe aromatiche e spezie:  aglio a piacere, sale, pepe, rosmarino, paprika dolce.
  • Lasciate riposare il pollo speziato nel frigo per un paio d’ore
  • Riscaldate il forno a 180 gradi
  • Svuotate a metà una bottiglia di birra (o vino se desiderate) e aggiungete acqua. Se volete preparare la versione analcolica svuotatela del tutto e riempitela con acqua o con brodo.
  • Posizionate il pollo verticalmente, seduto sopra la bottiglia e mettetelo in una pirofila con un bicchiere d’acqua. Durante la cottura, aggiungete altra acqua se si asciuga troppo.

Il tempo di cottura necessario è di circa un’ora, ma lo capirete da soli dal colore che prenderà il pollo fuori e dalla sua croccantezza. La cottura sarà a metà tra arrosto e bollito, più saporito del primo e meno insipido del secondo.




Paste e paste

Spesso, quando torno a casa in vacanza, mi chiedono tutti ricette di paste, specificando sempre “ sai, ricette che possiamo fare anche noi a casa” . Ho capito che in Romania c’è quest’idea che le paste non si possano cucinare sempre con gli ingredienti che si trovano da noi e che, per mangiare un buon piatto di pasta, devi andare al ristorante. Non ho mai saputo cucinare e non ho mai avuto la passione per la cucina. Quando ero in Romania non cucinavo quasi mai, mangiavo fuori, o andavo spesso a mangiare da mia zia Otilia e, il fine settimana, dai miei, a Bistrita. In radio, dove lavoravo dalla mattina alla sera, a pranzo il nostro paradiso culinario era il riso al bambù che ordinavamo al ristorante cinese. All’improvviso l’aria si riempiva di arome orientali. Ho imparato a cucinare in Italia, me l’ha insegnato mio suocero, che aveva un albergo in Toscana ed è un ottimo chef. Ho iniziato con ricette semplici, tradizionali, quelle “caserecce”, come le chiamano gli italiani. Non ricette elaborate, ricercate, ma quelle che aveva imparato dalla sua mamma o dalla nonna e che aveva impreziosito un pò, proprio il tipo di cucina che è stato riscoperto negli ultimi anni in Italia e che è molto ricercato tra i turisti stranieri. Perciò, quando qualcuno mi chiede in Romania di dargli qualche ricetta di paste io penso alla cucina semplice, rustica, con ingredienti facili da trovare o da adattare, ricette che si possono preparare anche nei campus, nelle cucine “povere”, ricette veloci ma squisite. Cucinare pasta ha un grande vantaggio, è molto veloce, in un quarto d’ora hai preparato un piatto saporito che ti sazia. Il problema è che devi inventare ogni giorno un altra ricetta e questo fatto per la mia cugina Mia, per esempio, è impensabile, visto che da noi si cucina un giornata intera per tutta la settimana. Certo che se calcoliamo il tempo che passa Mia in cucina sabato con quello che passo io ogni giorno, secondo me c’è parità. In Italia il pranzo in famiglia è sacrosanto, per molti c’è la pausa pranzo dale 13 alle 16.00, quando chiudono negozi e alcuni ufficci. E’ una tradizione che mi è piaciuta sin dall’inizio, forse perché io avevo solo il ricordo del pranzo in famiglia di domenica. Per concludere, il nostro blog avrà anche una categoria di cucina, in cui vi proporeremo ogni settimana delle ricette semplici da preparare, dei consigli facile da sugire, senza avere la presunzione di insegnarvi a cucinare.




I maccheroni dell’infanzia

Quando ero piccola, mia nonna cucinava spesso maccheroni, con formaggio di pecora, con pangrattato e zucchero, con noci e con marmellata di prugne. Mi ricordo che le bolliva molto, perché mio nonno li preferiva così e anche perché non esisteva ancora il concetto di pasta “al dente”. E’ inutile dire che per un italiano è un vero sacrilegio la pasta con la marmellata, come il ketchup sulla pizza, un vero orrore culinario. Ah, mi ero dimenticata proprio quello che mi piaceva di più: spaghettini al latte e vaniglia. Gli italiani hanno dimenticato che all’inizio, intorno al 1270, la pasta si cucinava con ingredienti dolci, come miele, zucchero e cannella, prima che fosse scoperto l’ingrediente principale per la pasta, il pomodoro. Dal punto di vista storico, la pasta con pangrattato e zucchero, per esempio, non è proprio un orrore culinario.

Domenica si mangiava brodo di pollo con spaghettini sottili, chiamati “tăieței”. Era un piatto indispensabile non solo la domenica ma anche ai matrimoni del paese. Mia nonna li faceva a mano, con tanta attenzione agli ingredienti e, siccome metteva le uova dalle nostre galline, la pasta veniva di un giallo intenso. La stendeva sul tavolo e poi tagliava con un coltello gli spaghettini, alcuni era più sottili, altri più grossi, erano imperfetti, ma erano fatti con le nostre mani e proprio per questo ci sembravano deliziosi. Dopo anni, mia mamma ricevette da una sua amica dalla Germania dell’ Ovest (c’era ancora il Muro di Berlino all’epoca) una macchinetta per preparare gli spaghettini, aveva più opzioni, potevi farli in vari forme, ma questo non cambiava nulla, perché sempre con brodo di pollo  o con pangrattato e noci li mangiavamo la domenica.
Gli italiani li avrebbero chiamati in vari modi: spaghetti, bucatini, vermicelli, linguine e li avrebbero cucinati in mille altri.
Noi preferivamo sempre le stesse ricette veloci, che saziavano e si potevano mangiare anche fredde. Ancora oggi, quando vado in Romania, mia mamma mi cucina pasta con pangrattato e zucchero, ammetto che mi piace perché ha l’aroma dolce e nostalgica dell’infanzia.