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1 novembre – “Luminație”, la Festa della Luce

Mia nonna diceva sempre che non puoi sentire di appartenere veramente a un posto se non hai i tuoi morti vicino e se non puoi andare ad accendere una candela sulla loro tomba il 1 novembre.  E’ il giorno in cui in Romania si celebra la Festa dei morti, chiamata anche Luminație, ossia la Festa della Luce. Nel cimitero del paese dove viveva non riposava nessuno dei suoi. I miei nonni erano rifugiati di guerra, sono stati costretti a fuggire dall’Ucraina (all’epoca apparteneva alla Romania), nel febbraio del 1944, dopo l’occupazione sovietica, in carrozza, con una bambina appena nata (mia mamma), hanno attraversato buona parte della Romania, vivendo un po’ dovunque, per poi stabilirsi infine a Mintiu, paese natale di mio nonno, nel cuore della Transilvania.  Un villaggio di 400 anime, troppo piccolo e troppo lontano da tutto quello che mia nonna aveva lasciato in Ucraina, prima di scappare via.  Fratelli, sorelle, genitori, amici… tutto svanito in quella notte del ’44.  Per 30 anni non ci è mai potuta tornare per motivi politici, 30 anni di ricordi che la legavano irrimediabilmente alla sua terra, a migliaia di chilometri di distanza. Il regime comunista aveva deciso di tagliare ogni filo che univa le famiglie separate dalla guerra e dagli accordi cinici con i quali le grandi poteri si divisero l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Non potendo prendersela con la storia, che spesso non lascia scampo, se l’è presa per tutta la vita con mio nonno, “colpevole” di averla amato e di averla portata via e, chissà, forse di averla salvata.

In 30 anni aveva perso tutto della sua vita precedente, tanti amici e parenti da non avere più la forza di contarli. Lontani in vita e lontani anche dopo la morte. E così mia nonna, per una sorta di protesta silenziosa contro le proprie avversità, non andava mai al cimitero del suo paese, nemmeno per accompagnare mio nonno, che,  invece, aveva i suoi genitori e altri parenti seppelliti lì. Piuttosto si chiedeva spesso dove fossero stati sepolti i suoi cari, in quale terra, sotto quale bandiera.

Profira, mia nonna, conduceva così la sua vita, cresceva i propri figli, i nipoti, me, coltivava il suo orto, amava suo marito, si arrabbiava a volte con la Vita e spesso anche con la Morte. Poi arrivava novembre, e solo in quei giorni capivo quanto sofferente potesse essere la vita di questa donna contesa tra l’amore di essere madre e il dolore di essere figlia senza famiglia.

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Nel paese c’era un vero rituale che tutti seguivamo: si andava al cimitero per preparare le tombe, a tagliare l’erba, pulivamo tutto intorno, piantavamo tanti crisantemi colorati. Passavamo giornate intere a curare quel posto, sulla piccola collina, alle spalle della chiesa, in mezzo ad un frutteto. In primavera era un tripudio di fiori bianchi e rosa che finivano poi a terra in un enorme tappeto colorato che avvolgeva come in un abbraccio le croci. Andavamo al cimitero anche noi, i bambini, era l’occasione per stare insieme e partecipare, a modo nostro, ai preparativi della festa. Conoscevamo a memoria tutte le lapidi, i nomi incisi sulle croci, sceglievamo quali erano le più belle e ci piaceva guardare le foto sulle croci, di quelli che non c’erano più e di quelli che erano ancora vivi, ma avevano provveduto, da tradizione, ad organizzarsi per la dipartita.

Era tutto così naturale,  la morte non ci spaventava,  anche perché crescevamo in un tempo scandito dall’alternarsi dalle stagioni, e, soprattutto, dai grandi eventi della vita del piccolo paese: nascite, battesimi, matrimoni e funerali. Era un mondo essenziale e semplice, in cui nessuno pensava che si dovesse nascondere o addolcire una verità cruda come la morte. Eravamo in prima fila ai matrimoni, a saltare, ballare o suonare insieme ai musicisti del paese, a gironzolare intorno alla sposa, mentre la preparavano per il grande giorno, e sempre in prima fila anche ai funerali, a guardare e ed ascoltare affascinati le donne vestite di nero, bocitoare, le cosiddette prefiche (le nostre pero non venivano pagate) quelle che raccontavano, tra un pianto e l’altro, la vita del defunto, come se fosse stato il romanzo più accattivante del mondo. Accompagnavamo il corteo funebre fino al cimitero e nessuno ci allontanava quando la barra veniva calata nella buca e si concludeva la sepoltura. Non mancavamo neanche alla “festa” che seguiva, a cui partecipava tutto il paese, prete incluso, dove si mangiava tanto e si beveva di meno, visto che ad ogni bicchiere alzato si versavano, da tradizione, alcune gocce a terra, per l’anima del defunto.

Quello che mi affascinava di più di tutti i passaggi obbligati del rituale legato alla morte,  era la veglia di tre giorni e tre notti, durante la quale gli amici del defunto si davano incessantemente il cambio, giocavano a carte, mangiando, bevendo,  raccontando aneddoti su di lui, facendogli compagnia senza lasciarlo mai solo. Nella credenza popolare, se il defunto veniva abbandonato, arrivava nell’oltretomba smarrito e triste. Mi ricordo che guardavo questi uomini seduti intorno alla barra aperta, che giocavano a carte e alzavano spesso un bicchiere di țuică (grappa) e brindavano per l’amico scomparso, piangevano e poi scoppiavano a ridere, mentre ricordavano qualcosa di divertente, e gli sentivo rivolgersi spesso al defunto con le parole “Ti ricordi quando…?”… Mi sembrava tutto così strano ma teneramente allegro.

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Mi rendo conto di quanto sia difficile capire un simile rituale per chi è estraneo alla nostra cultura, nella quale il rito funebre è un mix di paganesimo dacico* e di sacro ortodossismo. Non è stato semplice neanche per mio marito quando ha partecipato, qualche anno fa, alla festa dei Morti nel piccolo cimitero di Mintiu, dove è stata infine seppellita mia nonna, mio nonno e altri parenti. Quando abbiamo deciso di andare e di portare anche Matteo, nostro figlio, ha temuto che sarebbe stata un’esperienza troppo impegnativa, dal punto di vista emotivo, per un bambino di 5 anni. Io lo tranquillizzavo e gli ripetevo che la Festa dei Morti non è per niente una commemorazione, ma una celebrazione, ma non era facile spiegare tutto ciò. Si era convinto da solo a breve, quando, una volta arrivato nel cimitero, ha visto il via vai di gente, che si fermava tra le tombe in attesa di visite e visitando a loro volta le tombe degli amici o parenti. La gente si salutava, si abbracciava, molti di quelli che vivevano lontano approfittavano per tornare in paese una volta all’anno, il 1 novembre. E come in una sorta di mercatino rionale, ognuno invitava gli altri a fermarsi davanti alle tombe della propria famiglia, per bere un bicchiere o mangiare un dolcetto, per l’anima dei defunti.  Le tombe stesse si animavano, diventando all’occorrenza tavole da pranzo, banconi di un bar, tutto il cimitero si trasformava in un luogo di un’allegra festa conviviale in cui l’elemento predominante era incredibilmente la Vita.  Il prete passava tra le tombe e celebrava brevi messe per ricordare quelli che non c’erano più tra di noi.  I bambini correvano allegri giocando a nascondino, dietro le croci di pietra, rafforzando ancora di più l’idea che quella giornata era la festa della luce e della vita. Per tutto il giorno, le candele rimanevano accese e al calar della notte il cimitero si trasformava in uno spettacolo incredibile di sconfinate luminarie che animavano la notte fino all’alba successiva. Nessuna croce rimaneva al buio quella notte, perché la luce delle candele accompagnava le anime scese tra noi a ritrovare la strada del ritorno.

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*Il modo in cui si celebra in Romania la Festa dei Morti, il I novembre, ricorda inevitabilmente i riti degli antichi daci, gli antenati del popolo rumeno, che credevano nell’immortalità dell’anima e festeggiavano la morte come un passaggio ad una vita migliore, dove li aspettava il loro dio, Zamolxes. I daci ballavano e cantavano quando moriva qualcuno e piangevano quando nasceva un bambino. Con una simile visione sulla morte, si può spiegare anche perché l’unico Cimitero allegro del mondo si trovi in Romania, a Săpânța, un luogo dove si ride in faccia morte e si trasforma in arte un modo a dir poco originale di esorcizzare la morte. 




Roma-neide, siamo tutti figli di Traiano

Quando insegnavo lettere in Romania, nel primo liceo si iniziava con i quattro miti fondamentali della cultura rumena. Il primo tra tutti, il mito dell’etno-genesi del popolo rumeno, ossia la nascita del nostro popolo. Raccontavo ai ragazzi la leggenda secondo la quale l’imperatore Traiano, una volta conquistata la Dacia (l’attuale Romania) , in seguito alle guerre del 101-102dc e 105-106dc, si innamora di Dochia, la figlia del re dei daci,  Decebal.  Quando la vide, alta, esile, capelli lunghi,  occhi chiari, astuta e coraggiosa, rimase folgorato.  C’è un poema epico, dal titolo Traiano e Dochia,  che racconta quello che si suppone che sia avvenuto: l’imperatore tentò di prendere in sposa la bellissima principessa, descritta come una vera amazzone, ma lei lo rifiutò, vedendolo solamente come l’invasore crudele che conquistò le sue terre e distrusse il suo popolo. Decise di scappare e di rifugiarsi nelle montagne Carpati, dove solo i daci riuscivano ad inoltrarsi senza smarrirsi, per sempre. Si tolse i suoi abiti regali e si vestì con un saio da pastore, per non essere riconosciuta. L’imperatore la inseguì e quando le arrivò davanti stese le braccia per fermarla. Dochia chiese allora aiuto al Dio dei daci, Zamolxis.  Il dio la trasformò in una statua di pietra.  Traiano pianse disperato, le mise la sua corona in testa e la dichiarò comunque la sua regina.

dochia“Così nacque il popolo rumeno”, concludevo, in modo metaforico,  la lezione sulla genesi del popolo rumeno. Adesso immaginatevi dei ragazzi di 13-14 anni che, oltre ad essere colpiti dal romanticismo di questo amore impossibile, erano seriamente confusi sul significato di questa leggenda: “Professoressa, non capiamo com’è nato, tecnicamente,  il popolo rumeno se,  quando Traiano la toccò, Dochia si era trasformata in una statua di pietra!”, queste ed altre simili erano le domande volutamente imbarazzanti. Tra insinuazioni e risate, la loro fantasia era inarrestabile, proprio come quella degli autori anonimi e collettivi di questo mito, tramandato oralmente nel tempo. Spetta alla razionalità e ai trattati di storia fare chiarezza tra tutte le contraddizioni presenti nel racconto mitico. E quello che la storia narra sull’invasione della Dacia ha molto di eroico, ma veramente poco di romantico.

In realtàdecebal, la conquista delle Dacia da parte dei romani, sotto la guida dell’imperatore Traiano, fu un’operazione militare durata cinque anni,  che impegnò metà del potenziale bellico dell’impero romano.
Una guerra sanguinosa in cui morirono decine di migliaia di legionari romani e altrettanti daci, molto complicata,  perché il nemico era “estremamente preparato, difficile da sconfiggere e mai domo“, come si legge nei documenti storici dell’epoca.  Erodoto,  padre della storia, definiva i daci come “i più coraggiosi e giusti dei Traci “ per la bravura e il coraggio con cui affrontavano la morte, che  era per loro un passaggio verso l’immortalità dell’anima.  Omero, il grande poeta, scrive : “I Daci possiedono coraggio ed umanità in battaglia, possiedono una educazione morale, che manifestano curando i forestieri e i feriti caduti nella loro terra”.  

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Dacia Felix
era un potente stato, in espansione, con un temibile esercito, un re, Decebal,  che era un grande stratega, un unico Dio, Zamolxis, grazie al quale, diceva Platone, i daci erano immortali. La capitale dell’impero, Sarmizegetusa, era circondata da foreste impenetrabili, una vera fortezza naturale, imprendibile.  La Dacia rappresentava un pericolo per l’Impero Romano, che temeva una grande coalizione dei barbari contro Roma. Altri imperatori prima di Traiano, tra questi, Giulio Cesare e Domiziano, provarono ad invaderla ma furono amaramente sconfitti. Traiano decise di riprovare,  confidando nelle sue doti di grande stratega militare e sperando che, in caso di grande trionfo, sarmizegetusa gli fosse conferito un posto d’onore nella storia del grande impero. Ma Traiano fu attratto anche dal grande tesoro di Decebal, soprattutto perché l’Impero era in quegli anni sempre più povero.  La Dacia aveva numerose miniere d’oro e argento e rappresentava per i romani un vero El Dorado.
All’avvicinarsi dell’esercito nemico, quando la sconfitta era ormai inevitabile, il re Decebal preferì tagliarsi la gola con un pugnale ricurvo piuttosto che cadere prigioniero.
La vittoria fruttò a Roma 350 tonnellate di oro e argento, un tesoro di inestimabile valore, l’ultimo grande bottino dell’Impero Romano.

La storia del tesoro dei daci merita di essere raccontata, perché ha dell’incredibile. Decebal aveva deviato il corso di un fiume, per scavare una buca nel letto, nascosto il tesoro, ricoperto con pietre, e infine aveva riportato il fiume nel suo corso. I romani non l’avrebbero mai trovato se non avessero avuto la soffiata di un soldato vicino al re Decebal, di nome Bicilis. La sua malefica figura ha dato nascita a una parola, bicisnic, che significa, in rumeno,  “uomo senza onore, traditore e leccapiedi”. 

E’ proprio grazie a questo tesoro se a Roma si possono ammirare ancora, dopo 19 secoli, monumenti come il Foro di Traiano, con la sua imponente Colonna Traiana in mezzo. Apollodoro di Damasco, l’architetto preferito di Traiano, aveva già progettato per il suo imperatore il ponte più grande costruito durante l’Impero, il Ponte di Drobeta, sul Danubio, in Dacia. Dopo il suo ritorno a Roma, Apollodoro progettò il Foro di Traiano e la Colonna,  che fu innalzata nel 113dc per celebrare la conquista della Dacia e esaltare la gloria dell’imperatore. Lo scopo di questa meravigliosa opera non era solo celebrativo, ma anche didascalico, in quanto la colonna descrive le imprese più salienti della guerra in Dacia.

La Colonna Traiana è considerata dagli storici il certificato di nascita del popolo Romeno.

Alla morte prematura di Traiano, le sue ceneri furono deposte in un urna d’oro alla base della colonna, considerata uno dei più bei monumenti dell’antica Roma. Un vero kolossal storico, una pellicola cinematografica a spirale, che descrive le campagne militari romane in Dacia.colonna Massacri, devastazioni, teste romane su delle picche, romani che incendiano villaggi, daci fatti prigionieri e deportati, accampamenti in luoghi desolati, sconosciuti alle mappe dei soldati, foreste e monti impenetrabili, Traiano che guarda la testa del re Decebal, portata come trofeo da uno dei suoi soldati. Scene di lotta tra i daci e i romani, immagini terribili raffigurate magistralmente sulla Colonna Traiana, alcune portate a nuova fama cinematografica nel famoso film di Ridley Scott, il Gladiatore.

Che successe in Dacia, la nuova e l’ultima provincia romana, dopo il ritorno di Traiano a Roma? Rimase sotto l’occupazione romana fino al 271, una dominazione storicamente racchiusa in meno di due secoli, ma che lasciò un’impronta duratura nella regione, tanto che la lingua rumena – che si sarebbe sviluppata nei secoli successivi – è considerata lingua romanza come l’italiano, lo spagnolo, il portoghese e il francese.
Nonostante l’isolamento della regione, lontana da Roma, in una zona successivamente occupata da slavi e magiari, il rumeno ha una forte radice latina.

Della dominazione dell’Impero romano resta il nome di una nazione, la Romania, un’isola di latinità sopravvissuta nell’Europa Orientale, e una lingua che ha nel suo lessico oltre il 70% di parole di origine latina. Tante parole, certo, ma non abbastanza per includere nella lista anche quelle dell’amore che sono invece di origine slava*. Mi piace pensare che le parole che mancano sono quelle che  l’imperatore innamorato non fece in tempo a pronunciare alla sua principessa amata.

*Appendice amorosa della lingua rumena:
ti amo-te iubesc;
cara-dragă;
amata-iubită;
amore-iubire, dragoste. 




Azzurro di Voroneț nella Cappella Sistina d’Oriente

Nelle terre lontane dell’Est, quasi ai confini dell’Europa, in Bucovina (nel nord della Moldavia), esiste un azzurro irripetibile, talmente unico da entrare nel lessico artistico universale, insieme al rosso di Tiziano e il verde di Veronese. L’azzurro di Voroneț non è il colore del cielo, ma il colore  dominante negli affreschi di un monastero ortodosso,  tra i più belli del mondo, soprannominato dai critici d’arte la Cappella Sistina dell’Est,  grazie al suo dipinto principale, che copre l’intera facciata occidentale, il Giudizio Universale. Una vera Bibbia immersa nell’azzurro, realizzata, nel 1547,  dallo ieromonaco Gaurila,  apprezzato come un grande artista, colto ed erudito, conoscitore dei dogmi e della dottrina ortodossa, e per questo in grado di rappresentarli con chiarezza e capacità di sintesi. Nel mezzo della scena del Giudizio sta Cristo, con ai lati la Madonna e Giovanni Battista, tramite tra il cielo e il mondo degli uomini, che inizia più sotto con Adamo (rappresentato da vecchio, per esprimere la lunga durata del genere umano ) ed Eva (raffigurata giovane e bella, simbolicamente è grazie a lei che l’umanità si rigenera sempre).  Ai lati ci sono i santi e i gli apostoli, seduti su delle panche ornate, in stile prezioso e calligrafico. Attorno ad Adamo ed Eva viene raffigurata la grande scena corale della pesatura delle anime, dove per la maggior parte dei beati, Sparticolarean Pietro apre le porte del Paradiso. Sono pochi quelli destinati alla dannazione, l’artista conferendo molto spazio alla resurrezione e all’entrata nel Paradiso. La maestosa composizione, di grande ricchezza creativa, è rappresentata su un fondo azzurro, intenso, nelle sue infinite tonalità.

Gli altri affreschi, ricchi di dettagli, rappresentano altre scene bibliche, come la Genesi, ma anche preghiere e inni sacri. Nell’Albero di Gesù, o Albero di Jasse, si possono scorgere i ritratti di antichi filosofi greci come Aristotele e Platone.

Il monastero Voroneț coniuga elementi bizantini e gotici visibili nella torre, nelle finestre ad arco gotico e nelle cornici rettangolari delle porte. Non è per niente monumentale, anzi, è piuttosto piccolo ( 25×11 metri),  ma credetemi,  l’impatto è capace di togliere il fiato, per la bellezza e l’intensità dei suoi dipinti e per quell’azzurro che stranamente pare che cambi la sua tonalità a seconda del grado di umidità nell’atmosfera. La composizione del colore, realizzata con un pigmento sconosciuto oggi, molto durevole nel tempo e che gli conferisce una brillantezza fresca e inusuale, è stata persa con la morte dell’autore.  Si racconta che, alla fine del sedicesimo secolo, l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo inviò a Voroneț due alchimisti per studiare e capire il segreto del colore azzurro del monastero. Vennero, toccarono, prelevarono dei frammenti e li portarono a Praga, ma non seppero ricreare l’ azzurro degli affreschi. L’enigma dell’azzurro di Voroneț è tuttora irrisolto, visto che neanche chimicamente non si è riuscito a riprodurlo. Oggi si sa solamente che alla base di questo colore c’era un minerale chiamato azzurrite. Magia, stregoneria o alchimia, si è cercato di spiegare in tutti i modi il segreto dell’azzurro di Voroneț.  A sentire una delle monache del monastero, che si è demanastiredicata, negli ultimi anni, al restauro dei dipinti, “è proprio il colore che ha portato le anime tra queste mura, un vero miracolo della fede. Ogni santo raffigurato, ogni storia biblica, ogni dettaglio si sono fissati negli occhi dei visitatori grazie all’azzurro…E’ una carezza che giunge dal cielo…”

Così come sempre dal cielo sembrava giunta, nel 1475, l’ispirazione che ebbe l’eremita Daniil di Putna, nel consigliare Ștefan cel Mare (Stefano il Grande), il voivoda-principe della Moldavia, di intraprendere una campagna militare contro i turchi, guidati dal sultano Maometto II. L’eremita gli avrebbe predetto anche la vittoria, chiedendo al principe di erigere sul posto un monastero nel nome di San Giorgio Martire, come Patrono della sua chiesa. Stefano il Grande vinse quella battaglia e  fu considerato dagli storici il primo dei principi del mondo ad aver ottenuto una vittoria contro i turchi. In seguito,  papa Sisto IV lo nomino: 

manastirea_voronet“atleta di Cristo e un vero difensore della fede cristiana”. Si susseguirono tante altre battaglie e solo nel 1488, il voivoda mantenne la promessa fatta al sua consigliere-eremita e ordinò la costruzione di un monastero a Voroneț, che doveva diventare un luogo sacro simbolico in quella parte dell’Europa cristiana minacciata in permanenza dai turchi.  Il monastero fu edificato in meno di 4 mesi, ma gli affreschi furono aggiunti 60 anni dopo. Voroneț fu solo uno di una lunga lista che contiene tanti luoghi di culto costruiti da Stefano il Grande, nei suoi 44 anni di principato: la tradizione vuole che ci fosse stata una  chiesa per ogni anno e per ogni battaglia vinta contro i turchi. Le malelingue, esperte in “gossip storico”, parlano anche di tanti figli del voivoda, legittimi e illegittimi, certo, non tanti quanti i luoghi sacri che ha fatto edificare.  Ma queste “chiacchiere da salotto” non hanno impedito la Chiesa Ortodossa a santificarlo,  nel 1992, per il suo ruolo fondamentale nella difesa della cristianità. Nel 1475,  Stefano il Grande scrisse una lettera a tutti i sovrani cristiani d’Europa in cui ribadiva che “il nostro paese è la porta della cristianità finora difesa, con l’aiuto del Signore, ma se questa porta sarà persa, che Dio ci guardi, tutta la Cristianità sarà in grande pericolo”. 

Dopo più di cinquecento anni dalla loro costruzione, alcuni dei monasteri dipinti di Bucovina sono diventati patrimonio Unesco e attirano ogni anno oltre 2 milioni di turisti, attratti dalla bellezza degli affreschi e da quel misterioso azzurro che non si può scorgere in nessun’altra parte del mondo. Mi viene in mente che Fulcanelli aveva scritto ne Il mistero delle cattedrali che il segreto degli alchimisti è racchiuso in un colore di una vetrata di Nôtre Dame a Parigi. Il segreto dell’azzurro di Voroneț, invece, che neanche gli alchimisti dell’epoca sono riusciti a decifrare è racchiuso tra le mura di un monastero, nel lontano Est.

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I Premi Nobel erranti della Romania

Il vincitore del Premio Nobel per la Chimica 2014 si chiama  Stefan W. Hell  (premiato insieme agli americani Eric Betzig e William E. Moerner).
Stefan è tedesco nato e cresciuto in Romania.
Questa è la storia di un ebreo, due tedeschi e un americano…. tutti rumeni, tutti premi Nobel!
Uniti da un destino comune, segnato dall’appartenenza a un paese, la Romania, e alla sua storia tormentata degli ultimi 60 anni, furono obbligati a scappare, per salvarsi, per sopravvivere e per seguire i propri sogni.  Si potrebbe ricorrere a una frase fatta, pronunciata troppo spesso dalle nostre parti (oggi purtroppo attuale anche in Italia) : “spesso bisogna andare lontano per affermare le proprie ambizioni”.  In questi giorni,  nel mio paese, politici, opinionisti, analisti, gente comune si sono lanciati in commenti sterili su questo tema;  una domanda tra tutte, quasi retorica: “se fossero rimasti in Romania, sarebbero ugualmente riusciti a vincere un Nobel”?
Credo che invece di chiedersi se avessero comunque fatto la storia, sarebbe forse più giusto domandarsi se fossero sopravvissuti alla storia!

Stefan Hell è nato in Romania, nel 1962, nella cittadina di Arad, in una famiglia di șvabi (cittadini di origine sassone) che è emigrata in Germania, nel 1978.  Ha vissuto in Romania per 16 anni e, a sentire il suo racconto, la passione per la chimica è nata mentre frequentava il Liceo Nikolas Lenau di Timisoara, lo stesso che ha frequentato un precedente vincitore del premio Nobel, questa volta, per la letteratura, la scrittrice Herta Muller. La loro storia personale si incrocia con la storia di un paese, che, per più di quarant’anni, è stato vittima di una dittatura comunista dalla cui follia senza limiti volevano fuggire tutti. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la fuga era all’ordine del giorno, perché non c’era speranza. Tutti volevano fuggire, anche a costo della morte. Dal 1968 al 1989, oltre 200.000 cittadini rumeni di etnia sassone hanno lasciato la Romania. Nessuno poteva lasciare la nazione ma, per accordi con Israele e la Germania Federale, i sassoni e gli ebrei dietro lauto compenso (spesso coperto dalle rispettive nazioni), potevano ricongiungersi agli stati di origine. Il dittatore Ceaușescu capì presto quanto potesse essere redditizio questo commercio umano e rimarranno nella storia le sue parole: “Il petrolio, gli ebrei e gli șvabi sono le merci più ricercate da esportazione“. A partire dal 1978, il “prezzo” di un cittadino rumeno e della sua rimpatriata in Germania fu stabilito a 4000 marchi, per poi arrivare, nel 1988, a 8950 marchi.
Il neo premio Nobel per la Chimica, Stefan W. Hell,  ha lasciato la Romania nel 1978, insieme alla sua famiglia,  pagando probabilmente anch’egli  in marchi  il prezzo della propria libertà.  “Andarmene via è stato un grande sollievo per me, la Romania era un paese comunista dove non ti era permesso di dire quello che pensavi. Da un altro lato, invece, la scuola che ho seguito a Timișoara era molto buona e gli studi fatti lì mi hanno arricchito di conoscenze più avanzate di quelle dei miei colleghi tedeschi“, ha dichiarato recentemente in un’intervista Hell. Per lui, il “luogo dove sei nato è un posto speciale, che ti rimane nel cuore, ovunque tu vada“.  A volte la memoria di questi luoghi è tenera e i ricordi sono pieni di luce, a volte invece sono sommersi nel buio del terrore. E’ questo il caso di Herta Muller, che ha sviluppato il suo stile letterario proprio tra ombre soffocanti che avvolgevano la sua memoria, ottenendo il Nobel nel 2009 grazie alla “concentrazione della sua poesia e alla franchezza della sua prosa con le quali ha saputo descrivere il paesaggio dei diseredati” come si può leggere nella motivazione dell’Accademia di Stoccolma.
La scrittrice, poetessa e saggista è nota per la descrizione della dura vita sotto il regime comunista di Ceaușescu. Nel 1987 fuggì dalla Romania insieme al marito dopo essere stata licenziata nel 1979 (era traduttrice di tedesco) perché si era rifiutata di collaborare con la Securitate, la famigerata polizia segreta del regime, la stessa che la seguì e la perseguitò negli anni a venire.  ” Ti rendevi conto che sono stati di nuovo a casa tua da un quadro o una sedia spostati”, racconta. ” Se senti il rumore dell’ascensore mentre sei in casa a leggere un libro e ti viene il panico perché credi che siano venuti a prenderti. Tutto perde la sua ovvietà, cambia la visione e la percezione delle cose. In Romania ero così estranea che ero devastata da quella che provavo. Non c’è niente di più orribile che essere estranea in una patria che ti vuole morta»
Quando finalmente riuscì a ottenere dalla Securitate il dossier di 914 pagine che la riguardava, Herta Müller scoprì che veniva definita “un pericoloso nemico dello Stato da combattere”. Il suo nome in codice non era più Herta, ma “Cristina” alla quale venivano addebitate “distorsioni tendenziose della realtà del Paese“,  contenute nei suoi due libri scritti in tedesco, pubblicati in Romania, ma violentemente tagliati dalla censura comunista.  

Se veramente la storia è la somma dei fatti che si succedono, a volte apparentemente sconnessi, e “a fare la storia sono gli individui che hanno vissuto un attimo diverso dall’altro“, come stessa Herta Muller sostiene, dalla stessa parte del mondo,  ma in un’epoca diversa, un altro rumeno, premio Nobel per la pace, Ellie Wiesel, ha dato il proprio contributo pagando uno dei dazi più terribili, l’Olocausto, sopravvivendo.

Wiesel è uno scrittore statunitense, di cultura ebraica e di lingua francese, nato in Romania, a Sighetu Marmației (nella regione di Maramureș), nel 1928, in una famiglia ebrea. Fu deportato nel 1944 ad Auschwitz,  insieme ai genitori a alle tre sorelle. I genitori e una delle sorelle morirono qui, invece le altre due sorelle le ritroverà, qualche anno dopo, in un orfanotrofio in Francia. Per dieci anni dopo la fine della guerra, Wiesel si rifiutò di scrivere o parlare della propria esperienza durante l’Olocausto. Come molti sopravvissuti, non riusciva a trovare le parole per raccontare la sua esperienza. Poi scrisse 900 pagine di memorie,  “E il Mondo rimane in silenzio”, in cui raccontava la sua esperienza, nuda  e cruda, vissuta nel campo di Auschwitz, esperienza che gli ha fatto perdere la fede in Dio e l’umanità. L’opera, giudicata dai critici “rabbiosa”, fu riscritta, in versione più breve, in francese, con il titolo La notte, che fu subito considerato un capolavoro.   

“Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. “ Così descrive il suo tragico arrivo al campo di Auschwitz, nel settembre del 1944.  Quando, nel 1986, riceve il premio Nobel per la pace, il Comitato Norvegese dei Premi Nobel lo definì “messaggero per l’umanità”,  perché aveva consegnato al mondo un potente messaggio di “pace, di espiazione e di dignità umana“, attraverso la sua personale esperienza nei campi di concentramento.  A distanza di cinquant’anni il libro La Notte è stato tradotto in 30 lingue, ed è considerato, accanto a Se questo è un uomo, di Primo Levi e al Diario di Anna Frank, come uno dei capolavori della letteratura sull’Olocausto. 

La nostra storia dei Nobel rumeni,  erranti nel mondo, si chiude con George Emil Palade, un biologo e medico rumeno, naturalizzato statunitense, che ha vinto, nel 1974, il premio Nobel per la medicina e fisiologia, grazie alle sue ricerche nella biologia cellulare. Nato a Iași (nella regione della Moldavia), nel 1912, ottiene il titolo di dottore in Medicina, presso l’Università di Bucarest. Nel 1946, decide di lasciare la Romania, che, dopo l’abolizione della monarchia, si avviava nel tunnel comunista. La sua carriera è folgorante: da ricercatore all’Università di New York  all’Istituto Rockfeller, poi alla Yale University e all’Università di San Diego in California. Nel 1986, il presidente Ronald Reagan gli accorda la medaglia nazionale per meriti nel campo della scienza. Palade muore in California, all’età di 96 anni,  e le sue ceneri vengono sparse, per volontà sua, nei Monti Bucegi, in Romania, da una vetta chiamata Vârful cu Dor, la Vetta della Nostalgia.