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Rivoglio i miei vent’anni… quando facevo il militare!

Ho vissuto per 21 anni sotto il regime comunista di Ceaușescu, anche se i miei genitori appartenevano a quello che oggi chiamano la “classe privilegiata” e che all’epoca era la “nomenclatura” del partito. Nel dicembre del 1989, quando scoppiò la rivoluzione rumena, mio padre e tutti i dirigenti del partito comunista rimasero chiusi nei palazzi del potere, con le armi in dotazione, aspettando ordini, chiarimenti, decisioni da Bucarest, nella confusione e nel caos più totale in cui cadde il paese intero. Invece di ordini dall’alto, arrivarono i rivoluzionari, dal basso, dal popolo,  che occuparono le strutture del potere. Con il terrore che non sarebbe mai tornato a casa o che sarebbe finito in prigione, ci scrisse una lettera che ci lasciò la mattina del 20 dicembre, quando uscì di casa come tutte le mattine, per andare al lavoro. Ci diceva che tutto quello che aveva fatto negli ultimi vent’anni lo aveva fatto per proteggere noi.

Ma non è su questo che voglio scrivere anche se, a dire il vero,  ci sarebbe tanto da parlare sul conflitto interiore che mi ha logorato a lungo tra l’amore indiscusso per mio padre e la tentazione di giudicarlo per errori e colpe non direttamente sue, ma del regime, per i troppi silenzi, le molte omissioni e l’eccessiva sottomissione.

Nell’aprile del 2014, un sondaggio realizzato in Romania dall’istituto IRES scopre che il 66% dei rumeni intervistati vorrebbero di nuovo conducătorul iubit (leader amato), ossia Nicoale Ceaușescu,  a guidare il paese, perché, secondo loro,  prima si viveva meglio. Quello che ha sorpreso gli analisti politici rumeni e stranieri non è stata l’alta percentuale di nostalgici, ma il fatto che, negli ultimi 4 anni, il loro numero è cresciuto addirittura del 25%. Nonostante i venticinque anni trascorsi dalla caduta del regime comunista, la sanguinosa rivolta popolare,  la fucilazione del dittatore con la moglie Elena nel giorno di Natale ’89 e all’instaurazione della democrazia, i rumeni rimpiangono il loro lavoro sicuro, la casa a cui pensava il partito, il fatto che tutti avevano la vita che sembrava la migliore possibile. “Questa sorta di nostalgia di comunismo non è altro il che frutto di una cattiva memoria”, hanno sentenziato gli analisti. Beh si, facile dare sentenze e tirare sempre in ballo la memoria collettiva! mormant-ceausescu1Io preferisco appellarmi alla memoria individuale, la mia, e vi dirò, con onestà,  di cosa sono nostalgica e cosa invece non mi manca di quei 21 anni vissuti nella Romania comunista.

Ho nostalgia delle belle giornate e serate passate a divorare libri, in assenza della tivù come alternativa “contagiosa”, visto che c’era un solo canale e due ore di programma, dalle otto alle dieci di sera. Ho nostalgia dei cartoni animati russi (uno in particolare, di un lupo che inseguiva sempre un coniglio furbacchione, che non si faceva mai acchiappare e che ho fatto vedere anche a mio figlio quando era piccolo), dei film russi che adoravo (il grande regista Nikita Mihalkov!), dei libri vietati dalla censura che ci passavamo sotto mano e leggevamo di nascosto.
Non ho nostalgia invece della propaganda quotidiana che dilagava in tv nei discorsi del dittatore, della censura che vietava libri, poeti, scrittori e ogni forma di arte libera; delle continue interruzioni di corrente imposte come forma di risparmio energetico, che ci obbligavano a fare i compiti al lume di una candela o di una lampada a petrolio.

Ho nostalgia del mio liceo pieno di alunni, con le sezioni che arrivavano alla lettera M, del cortile della scuola in cui ci incontravamo nelle pause a parlare di tante cose, sottovoce.  Mi ricordo che, quando qualcuno raccontava una delle tante barzellette che circolavano sul dittatore o sul regime, sapevamo che era un “provocatore” e seguivamo i consigli dei genitori di non ridere, mai. Eravamo tanti quelli della mia generazione, ci chiamavano decreței,  figli del decreto 770 del 1967,  che vietava gli aborti. Ci piaceva credere che eravamo frutti di un amore e non di un decreto. Non scherzavamo molto perché sentivamo anche noi  i nostri genitori raccontarsi di qualche amica o conoscente che era morta nel tentativo clandestino di abortire. Non mi mancano assolutamente le file davanti allo studio medico del liceo, per i controlli ginecologici obbligatori a cui ci dovevamo sottoporre dopo che una di noi era rimasta incinta ed aveva provato ad interrompere la gravidanza in casa, rischiando la vita.

Mi mancano invece le lunghe file davanti ai teatri, dove la censura non era ancora entrata o era troppo ignorante per capire i sotterfugi dei registi, che trasformavano  gli spettacoli in vere forme de dissidenza culturale. Mi mancano le serate di cinema alla Casa degli studenti, dove ho visto i film di Visconti, Fellini, Pasolini, trascurati dalla censura, nella mischia di film russi, indiani o cinesi. Non mi mancano i documentari propagandistici che precedevano i grandi film d’autore e neanche i festival dedicati a Ceaușescu, per nutrire il suo eccessivo culto della personalità.

Ho nostalgia dei corsi universitari, alla Facoltà di Lettere di Cluj,  una piccola isola di universalità, in cui avevamo la libertà di viaggiare con la mente senza che nessuno potesse impedircelo, in cui ognuno veniva gratificato per i propri meriti, apprezzato per il suo valore. Mi mancano le colonie estive dove andavano i più meritevoli, come premio per il loro impegno alla “costruzione di una società comunista esemplare“.  Non mi mancano i giorni di militare (si ho fatto anche il militare!), obbligatori per le studentesse, in cui in cui venivamo istruite per diventare un esercito di donne. Non mi mancano neanche le lunghe marce sotto il sole, con il Kalashnikov appeso sulla spalla, la stessa che diventava viola per il rinculo del fucile quando andavamo al poligono a sparare, un maledetto Kalashnikov che non riuscivo mai a rimontare correttamente, sempre con un pezzo avanzato in mano da collocare.

E cosa dire delle ficoada-permisele davanti ai negozi di alimentari, con la scheda chiamata cartelă in mano, per ottenere un pezzo di pane  e un litro di latte al giorno e, mensilmente, 1 kg di zucchero, 1 di farina, 1 di olio, 10 uova, 1 kilo di carne,  la nostra razione,  per me e mia sorella, che eravamo studentesse e vivevamo da sole? No, quelle non mi mancano affatto!

Noi, da privilegiati, potevamo acquistare ogni tanto anche altre cose, il caffè solubile ad esempio, il cioccolato cinese, salame,  qualche deodorante tedesco, saponi ungheresi, scarpe di qualità destinate solo all’esportazione,  medicinali, cotone idrofilo, qualche libro vietato dalla censura.  La nostra casa diventava a volte una sorta di mensa per gli amici, i meno fortunati.

Ho nostalgia degli inverni a casa dei miei nonni, in campagna, dove le stufe in terracotta riscaldavano le stanze per tutta la notte. Non mi mancano, ovviamente, gli inverni in città, con sole due ore di riscaldamento al giorno, a volte a 35 gradi sotto zero, in una pazza corsa al risparmio energetico del regime.

Ho nostalgia delle visite in Romania di tanti Elena (signora), l’amica francese di mia mamma, che portava con lei tutto il profumo parigino del mondo proibito.  I miei primi jeans “capitalisti” me li ha portati lei e mi hanno invidiato tutti a scuola. Mio padre preferiva non essere presente alle visite, perché trattandosi di una straniera, questo presupponeva che doveva fare un rapporto ai servizi segreti su quello di cui si era parlato, visto che ogni cittadino proveniente dall’occidente era indicato come una possibile pericolosa spia capitalista.

Mi mancano le serate in famiglia, quando ci riunivamo tutti, alla fine di un’altra giornata vissuta in quel mondo “protetto”, dove ognuno aveva una casa, un lavoro,  un progetto di vita chiuso tra tante limitazioni e divieti ma “sicuro”. Non mi mancano quei minuti in cui spiavo con un bicchiere appoggiato al muro mio padre e mia madre che, chiusi in bagno, aprivano l’acqua del rubinetto e cominciavano a parlare delle decisioni spesso assurde e sofferte che gli ordini arrivati da Bucarest li obbligavano a prendere, cose di cui non si poteva parlare liberamente. Presto avrei capito che il rumore dell’acqua copriva le parole “ribelli” di mio padre che sapeva che tutta la casa era piena di microspie… tranne il bagno appunto, una traccia di buonsenso forse in un mondo ormai impazzito!




Paese che vai, cibo che porti

Tutti sanno che l’italiano che va all’estero, per una settimana, un mese, un anno o per sempre non può fare a meno di taralli, tarallucci e vino, di olio extravergine di oliva e caffè, di grana e soppressata,  di alcune marche di biscotti, di peperoncino tritato, origano, basilico e rosmarino, di riso Carnaroli,  bottarga e salsicce, guanciale di Amatrice e pecorino (se no, come mangi l’amatriciana?). Vogliamo parlare della moka o della caffettiera napoletana?  O dello sgrassatore Chante Clair?

La lista è lunga e non lascia spazio a sorprese se non fosse che  non si tratta affatto di una semplice lista, un elenco di articoli, tipo supermercato.  A volte esprime una vera filosofia di vita, una “cura contro la nostalgia”, ogni prodotto funziona come la madeleine di Proust, quel biscotto inzuppato nel tè, che ha il potere, con il suo profumo e il suo sapore, di riportare nella memoria il tempo perduto e felice dell’infanzia.

Quando qualche parente italo-americano di mio marito viene in Italia da New York, al ritorno porta cose che non hanno solo un nome già saporito, ma anche una storia.  Per esempio la parmigiana di melenzane di zia Giannale chiacchiere o le zeppole di zia Rina. La marmellata di fichi di zia Nunzia.  Le freselle comprate nello stesso panificio, quello che c’è nello stesso posto da sempre. La valigia di ritorno dall’Italia non è piena solo di cose vitali, “indispensabili”, ma soprattutto di ricordi che fanno vivere delle gioie irrinunciabili per un italiano all’estero.

Possono sembrare vizi e capricci culinari e ammetto che anche io li giudicavo come tali all’inizio. Ma poi, ci sono cascata anche io. Quando siamo andati a Londra, due anni fa, a Pasqua, con degli amici, abbiamo messo in valigia: la pastiera napoletana, il casatiello, la caffettiera ed il caffè. Quando vado in Romania porto il parmigiano, il grana, olive di Gaeta, limoni freschi, pasta mista (che non trovo mai nei supermercati rumeni), peperoncino tritato, origano, la marmellata di arance. I miei, concordo,  sono dei vizi, ma non posso farne a meno. Ogni volta che svuoto le valigie, mi ritornano in mente le stesse immagini: a metà degli anni novanta,  lavoravo come interprete per una ditta italiana a Cluj, in Transilvania. I due soci erano bergamaschi e all’inizio venivano spesso in Romania, dove rimanevano mesi, per seguire da vicinocibo emigrante gli affari. Arrivavano sempre in macchina ed  era un vero spettacolo vederli scaricare il portabagagli. C’erano: tante casse d’acqua, naturale e frizzante, olio extravergine di oliva, passato di pomodoro, caffè, pasta, riso, grana padano, formaggi, insaccati, banane, biscotti, fette biscottate, detersivo, ammorbidente…  e l’immancabile caffettiera. Qui farei una breve parentesi, un po’ anche per giustificare la presenza della caffettiera nelle loro valigie: all’epoca in Romania si beveva ancora il caffè turco, una specie di infuso di caffè, preparato in un pentolino alto e stretto in rame,  provvisto di un lungo manico, in cui si mettevano due parti di caffè, una di zucchero e circa una dozzina di acqua. Si mescolava e si portava ad ebollizione. Si levava dal fuoco e si lasciava raffreddare, in modo che il sedimento si depositasse sul fondo delle tazzine. Assumeva forme particolari che potevano essere interpretate dalle famose “ghicitori în cafea” (quelle che leggevano nel caffè e predicevano il futuro). Non sapevano gli italiani che cosa si perdevano rifiutandosi di bere in Romania il caffè turco! O forse sì…

Lo so che vi sembrerà una barzelletta, ma la prima volta che ho preparato il caffè in una caffettiera napoletana, stava per esplodere! Avevo messo l’acqua sopra, il caffè nel filtro e aspettavo che scendesse nel recipiente di sotto! Supposto anche che la caffettiera napoletana in Romania fosse proprio indispensabile (ma magari anche un corso di preparazione del caffè per i rumeni…), questi italiani passavano  agli occhi degli amici rumeni  per dei viziati e maleducati,  che non si fidavano nemmeno di bere la nostra acqua, che non avevano nessun interesse per la nostra cucina e che volevano vivere da perfetti italiani in Romania!  Adesso, guardando indietro, dopo vent’anni, li capisco:  non si tratta di un vizio, è piuttosto “nostalgia gastronomica“!

 




“Pui pe sticlă”, c’è un pollo sulla mia birra!

pollo sulla bottigliaQuando ho cucinato per la prima volta in Italia il pollo sulla bottiglia (come una ricetta rumena particolare, a grande richiesta) sapevo che si sarebbe arrivato a parlare di Dracula o, meglio, di Vlad l’Impalatore. “Si vede che siete i suoi eredi, ha detto un amico, impalate persino i polli…”. La scena era tragicomica: il povero pollo che troneggiava nel forno su una bottiglia di vetro e tutti che lo guardavanocuriosi…tra battute, alcune originali, alcune “prestate” dai comici (vi ricordate la parodia dei Negramaro che faceva qualche anno fa Checco Zalone, quando cantava la canzone Lu pollu cusutu n’ culu ?) ed esclamazioni che si alternavano tra terrore e divertimento, passando per la pietà per il povero pollo. Il dubbio più frequente che veniva agli intenditori di cucina era perché sottoporre il pollo ad un trattamento simile, quando c’era l’alternativa meno crudele del pollo arrosto? Quando hanno cominciato a mangiare hanno capito la differenza. Il pollo cucinato sulla bottiglia ha due grandi qualità: è morbido ed aromatico dentro, croccante e saporito fuori. In più, il vino o la birra con la quale deciderete di riempire la bottiglia, con l’insieme di erbe aromatiche, daranno un profumo particolare alla carne.

 La ricetta è molto semplice, ma la preparazione del pollo necessita un paio d’ore prima di metterlo nel forno.

  • Lavate bene il pollo, che sceglierete in base alla grandezza del vostro forno. Spalmatelo, all’interno e all’esterno, con olio e un mix de erbe aromatiche e spezie:  aglio a piacere, sale, pepe, rosmarino, paprika dolce.
  • Lasciate riposare il pollo speziato nel frigo per un paio d’ore
  • Riscaldate il forno a 180 gradi
  • Svuotate a metà una bottiglia di birra (o vino se desiderate) e aggiungete acqua. Se volete preparare la versione analcolica svuotatela del tutto e riempitela con acqua o con brodo.
  • Posizionate il pollo verticalmente, seduto sopra la bottiglia e mettetelo in una pirofila con un bicchiere d’acqua. Durante la cottura, aggiungete altra acqua se si asciuga troppo.

Il tempo di cottura necessario è di circa un’ora, ma lo capirete da soli dal colore che prenderà il pollo fuori e dalla sua croccantezza. La cottura sarà a metà tra arrosto e bollito, più saporito del primo e meno insipido del secondo.




Quel cattolico ortodosso di mio figlio!

Mio figlio è battezzato cattolico ed è praticante ortodosso. Lo so che può sembrare un paradosso, ma ho voluto che crescesse nello spirito “ecumenico” di uno che è nato in una famiglia mista, non solo dal punto di vista etnico ma anche religioso. Ha imparato a fare il segno de la croce quando era piccolo, per imitazione mia e così, all’inizio, lo faceva come gli ortodossi: sempre “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (“în numele Tatălui, al Fiului și al Sfântului Duh”), ma, sullo “Spirito Santo”, la croce si fa a destra e non a sinistra, come i cattolici.
Quando ha iniziato a studiare religione a scuola, ha cambiato “direzione” e faceva la croce da sinistra a destra. Ha avuto un periodo di evidente confusione, perché in Romania, quando passava davanti a una chiesa, voleva farsi la croce e non sapeva se farla come un cattolico o come un ortodosso. Quando accompagnava la nonna rumena alla messa (e grazie alla nonna che è diventato un “aspirante” ortodosso), voleva farla come lei, ma spesso si confondeva. La nonna gli ha spiegato che deve fare il segno della croce come se la sente. Per adesso, suppongo per non far arrabbiare nessuno, lo fa a giorni alterni, cattolica e ortodossa.
Un giorno è tornato da scuola e mi ha detto che aveva fatto il segno della croce ortodosso e che i bambini gli avevano chiesto perché la faceva così. Quando ha risposto che lui è “metà ortodosso e metà cattolico”, gli hanno chiesto se gli ortodossi erano cristiani. Confesso che era una domanda piuttosto inaspettata. L’insegnante di religione gli ha proposto di prepararsi per la prossima lezione e di parlare ai bambini di che cosa fanno di diverso gli ortodossi dai cattolici, oltre che al segno della croce. Mio figlio era molto preparato, soprattutto perché quel mese all’anno che passava con i nonni materni in Romania era per lui un’esperienza quasi… mistica, a tal punto che mio marito mi raccomandava sempre di non far diventare nostro figlio “popă” (il prete rumeno).
Ha cominciato spiegare ai bambini che anche gli ortodossi sono cristiani perché credono in Cristo. Poi ha raccontato del pane santo, questo gli piace molto. Davanti all’altare, dalla prima mattina, si mette un vaso con il pane benedetto, tagliato a cubetti, che ogni credente o anche solo passante che entra in chiesa per dire una preghiera, può prendere. E’ il corrispondente dell’ostia che si distribuisce alla fine della messa cattolica. Solo che il pane santo degli ortodossi è di tutti e Matteo passava ogni mattina a prendere qualche cubetto. La verità è che si riempiva le tasche… Quando non andava alla messa, chiedeva alla nonna, appena entrava in casa, se gli aveva portato il pane santo.
Va in chiesa anche per il coro dei ragazzi, studenti di teologia, che cantano divinamente durante la messa, anche se lui non sempre capisce le parole.
Poi ci sono le icone che riempiono le chiese ortodosse, non ci sono statue, solo icone, tante, dipinte sul vetro o sul legno. Molte con l’immagine della Vergine Maria insieme al piccolo Gesù. Quando si entra in chiesa, si bacia l’icona che si trova davanti all’altare e si fa il segno della croce. Ha raccontato anche di una volta che, mentre ascoltava la messa, il giovedì prima di Pasqua, la messa più lunga dell’anno perché si leggono frammenti dei dodici Vangeli, guardava incuriosito le icone e, ad un certo punto, mi ha detto: “Mamma, hai visto che la Madonna ha le rughe?”. L’hanno sentito tutti, meno male che l’hanno capito in pochi.
Come poteva non raccontare di quello che era accaduto qualche anno fa durante la messa del Venerdì Santo, quando i credenti, con candele accese in mano, circondano la chiesa, pregando e ripetendo le fermate del Golgota, nel Venerdì nero, della crocifissione. Mentre camminavano qualcuno ha iniziato a gridare: “State bruciando i capelli al bambino!!!”. Il bambino era Matteo, qualcuno disattento dietro di lui gli ha bruciato i capelli con le candela.
Poi i santi… Ha spiegato ai bambini che lui festeggia l’onomastico due volte, il 16 settembre e il 21 novembre, San Matteo e Sfântul Matei. In questo è fortunato, perché gli ortodossi festeggiano pochi santi, gli apostoli e gli evangelisti. In Romania non c’è l’onomastico, e né i nonni né i genitori, gli zii, le zie, nessuno lo può festeggiare. E questa cosa i bambini della classe di Matteo non l’hanno gradita tanto.
Le preghiere le ha imparate in rumeno. Padre Nostro (Tatăl Nostru), è uguale, e lo sa bene in rumeno. Quando lo deve dire in italiano fa, nella mente, la sua traduzione, che non è sempre quella corretta. Ma il senso rimane. Per Caterina, la sua amica rumena che vive in Sardegna, è ancora più complicato. La mamma è di origini sassone e gli ha insegnato Padre Nostro in tedesco, a scuola l’ha imparato in italiano e la nonna gliel’ha insegnato in rumeno. Una volta siamo andati insieme a una messa, in Romania e, quando è arrivato il momento del Padre Nostro ha chiesto alla mamma in che lingua doveva dire la preghiera?
La preghiera preferita di Matteo è una che gli ho insegnato quando era piccolino: “Înger, îngerașul meu, roagă-te la Dumnezeu. Eu sunt mic, tu fă-mă mare, eu sunt slab tu fă-mă tare, și de rele ma ferește și-n tot locul mă păzește. Amin”. In traduzione libera sarebbe: “Angelo, angioletto mio, prega a Dio. Io sono piccolo, fammi diventare grande, io sono debole, fammi diventare forte, difendimi dal male e proteggimi ovunque.”
La quaresima è tutto l’anno, non solo prima di Pasqua, ha continuato a spiegare ai bambini, esagerando un po’, poi ha aggiunto che la nonna non mangia quasi niente nei 40 giorni prima di Natale e prima di Pasqua, due settimane a giugno, due ad agosto… Non mangia carne, latte, uova, niente di origine animale, pesce solo se nel calendario ortodosso c’è scritto “dezlegare la pește”. Una volta è venuta a Pasqua in Italia e ha dovuto chiedere al prete una specie di permesso per poter interrompere la quaresima, permesso accordato dalla chiesa ortodossa ai viaggiatori e ai malati.
Quello che ha sorpreso più di tutto gli amici di Matteo è quando gli ha raccontato che a volte, nel cortile della chiesa, gioca insieme ai figli del parroco, che accompagnano il padre tutte le domeniche alla messa. Che altra spiegazione poteva dare un bambino di 10 anni se non la più semplice: “i preti ortodossi si sposano e hanno famiglia.”
Alla fine i bambini gli hanno chiesto perché non faceva la comunione. Perché gli ortodossi non hanno né la comunione, né la cresima.
“Peccato, hanno risposto i bambini, così non fai la festa e non ricevi regali”.
“E’ vero, ha risposto Matteo, ma in cambio festeggio due onomastici.”