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Figli di un decreto minore

E’ difficile da accettare, ma, probabilmente, sono venuta al mondo per… decreto! Sembra assurdo, ma in Romania un tempo si nasceva non solo per amore o per caso, ma anche per il decreto 770!

Alla fine del 1966, il regime comunista di Nicolae Ceaușescu decise di vietare gli aborti e la contraccezione, non certo per motivi religiosi o umanitari -impensabili in un regime totalitario- ma con l’unico nazionalistico scopo di incrementare la popolazione.

Nella pratica, fu solo un crudele e cinico esperimento sociale, disumano, che durò ben 23 anni!

Da un lato si mettevano al bando preservativi e altri metodi contraccettivi, venduti solo al mercato nero a prezzi proibitivi per la maggior parte dei romeni (i preservativi portati dalla vicina Ungheria, liberale e libertina, erano i più contesi); dall’altro vigeva il divieto assoluto di aborto. L’educazione sessuale era inesistente e i libri sulla riproduzione e la contraccezione erano considerati “segreti di Stato“, fruibili solo nell’ambito della formazione medica.

decreteiPiù in dettaglio fu vietato l’aborto a tutte le donne al di sotto dei 40 anni (il limite di età fu esteso ai 45 anni, nel 1972), alle donne che avevano meno di 4 figli (limite portato a 5 nel 1972), a quelle la cui gravidanza non era causa di pericolo di vita, a donne la cui gravidanza non era provocata da incesto o stupro.

I trasgressori del decreto venivano puniti con la prigione.

il più grande boom demografico di tutti i tempi

Il risultato di tutto ciò fu il più grande boom demografico romeno di tutti i tempi, tra il 1967 e il 1968, con un incremento percentuale di nascite superiore al 100%.
Con il decreto 770 vennero al mondo ol4 settimane 3 mesi 2 giornitre 2 milioni di bambini, un vero e proprio esercito di figli del partito e non sempre dell’amore, per i quali lo stato ha dovuto costruire in fretta asili, scuole, ospedali, ma anche orfanotrofi. Gli effetti collaterali di questa politica della pazzia furono infatti gli oltre 170.000 bambini abbandonati, un’enorme eredità di Ceaușescu, fonte di un vero e proprio caso umanitario mondiale con cui la Romania continuò a dover fare i conti per molti anni dopo la sua morte (vi ricordate lo sdegno provocato dalle colonie di bambini che vivevano nella fogne di Bucarest negli anni ’90? Le associazioni umanitarie, anche italiane, che tentavano di salvarli? Le adozioni internazionali legali e paralegali dei bambini romeni?).

Il loro numero sarebbe stato molto più grande se non ci fossero stati ben 4 milioni di aborti clandestini. Come è facile immaginare, in una Romania comunista dove le donne lavoravano quanto gli uomini, i sindacati erano inesistenti, la povertà era spesso la normalità, l’aborto di donne che non potevano permettersi un figlio era all’ordine del giorno.
Ma è bene conoscere le regole di questo gioco al massacro. Se una donna si recava in ospedale per cercare aiuto dopo le complicanze di un aborto illegale, NON veniva curata fino a quando non avesse denunciato la persona che aveva eseguito il raschiamento. Spesso questo significava denunciare un’amica, una sorella, una madre.
Per paura di questa sadica situazione, la scelta tra la propria vita e quella di un altro, molte donne non chiedevano assistenza medica, almeno fino a che non era strettamente necessario, e, spesso, lo strettamente necessario significava la propria morte! Si stima che più di 11 mila donne morirono per le conseguenze degli aborti illegali.

orfaniSi pensi che il loro numero supera quello delle vittime delle persecuzioni politiche degli anni della dittatura, ma di queste donne, dopo il 1989, si è parlato poco, pochissimo, non solo perché queste morti bianche non hanno mai avuto un registro e un conteggio preciso, ma anche e soprattutto perché ogni famiglia, ogni donna che ha vissuto sulla propria pelle gli effetti di questo decreto ha fatto in modo di rimuoverne il ricordo. Una spietata e rara testimonianza è il film “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” del regista rumeno Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes nel 2007.

la polizia mestruale

femei la doctorNessuna donna vuole ricordare le file davanti agli studi ginecologici, quando le donne, sotto i 40 anni, venivano prelevate dal loro posto di lavoro ogni mese e sottoposte a esami medici obbligatori per determinare prima possibile se erano in stato di gravidanza.
A nessuna fa piacere ricordare che la loro fertilità era continuamente monitorata dai fin troppo zelanti funzionari statali che, oltre agli esami medici, conducevano dei veri e propri interrogatori sul perché non procreavano abbastanza. Questi esami ginecologici venivano spesso effettuati in presenza della cosiddetta “polizia mestruale” (ebbene si, abbiamo avuto anche quella!), come la soprannominavano i rumeni, che sottoponevano le donne ad una periodica violenza istituzionalizzata.
Nessuna vuole ricordare l’abbandono di un figlio, la denuncia di un parente, la morte di un’amica, sul tavolo della cucina, dopo un aborto fallito…

i tempi dell’Amore senza sesso

Nemmeno io vorrei poter ricordare quel giorno di autunno del 1985, in terza liceo, quando insieme a tutte le ragazze delle 10 sezioni della mia scuola, fui portata alla mia prima visita ginecologica obbligatoria, in seguito al tentativo di aborto di un’amica, arrivata in ospedale in fin di vita. Eravamo in fila in un silenzio surreale, abbandonate ai nostri pensieri confusi, riflettendo sulle conseguenze dell’amore.

Stavamo per diventare donne in un mondo in cui nessuno ci aveva detto dove collocare questo Amore, tra la paura, il dubbio, il divieto, il vincolo in cui era imprigionato il sesso.

Un mondo in cui fare l’amore era stato cancellato dal lessico comune. Infatti, noi, quelli nati nei primi anni dopo il decreto, non siamo stati mai chiamati figli dell’amore ma, ironicamente, decreței, ossia figli del decreto. Mia sorella, nata per amore nel 1964, non perdeva occasione, durante i nostri litigi infantili, di ricordarmi che io ero una di quelle.

Quando giocavamo giù al parco, noi, i figli del decreto, eravamo spesso i più arrabbiati verso il mondo e verso i nostri fratelli più grandi e desiderati.
Noi eravamo i figli con la chiave al collo… no non è una metafora, avevamo davvero la chiave di casa appesa al collo quando uscivamo per andare a scuola. Soli all’andata, soli al ritorno. Nati già grandi per necessità familiare e di partito, autonomi, responsabili, disciplinati, perseveranti, combattivi.

2 milioni di bambini di troppo!

bambina con la chiave al colloGli stessi che poi a vent’anni facemmo la rivoluzione del 1989, che portò alla caduta del regime comunista. La nostra vendetta contro il governo che ci aveva decretati!

Qualche tempo fa ho letto uno studio, sul Sole 24 Ore, in cui la psicologa Margherita Carotenuto sosteneva che “la violenza genetica dei decreței è la causa principale dei reati compiuti dai romeni in Italia.”  Secondo lei, è impossibile cancellare l’infanzia!

Non so se il decreto 770 abbia davvero portato al mondo una generazione di figli indesiderati,  non so se molti di loro, da grandi, siano diventati violenti,  frustrati e infelici. So però che il pensiero di non essere (solo) figli dell’amore, di essere nati per dovere patriottico, di essere diventati, inconsapevolmente,  i protagonisti di una pagina importante della storia del nostro paese, il pensiero che forse non siamo stati dei bambini desiderati, ma piuttosto obbligati o meglio, obbligatori… credetemi, questo ci ha tanto tormentati e spesso ci tormenta ancora.

Post Scriptum
Mia madre quando ha saputo che stavo scrivendo questo articolo mi ha ulteriormente rassicurata sul fatto che sono assolutamente figlia dell’Amore!!!




La Rivoluzione in un tappeto

La rivoluzione che ho vissuto 25 anni fa ha per me l’odore del fumo acre, denso e intenso che si sprigionava dalle pagine dei libri squarciati dai proiettili. Tanti libri con pagine sfregiate, un piccolo vuoto in mezzo, un cerchio perfetto che racchiudeva tra i suoi margini bruciati le parole mancanti di una storia, ancora non scritta, di un popolo, svegliatosi in un giorno freddo e cupo di dicembre per gridare in piazza la propria disperazione, incurante dei carri armati e dei soldati. Tanti di loro, giovanissimi come me, con i fucili pronti a sparare, combattuti tra il dovere, la paura e la voglia di abbracciare gli stessi vicini e parenti che li fronteggiavano dall’altra parte della barricata.  Poi, c’è la storia individuale della mia famiglia, che non ha niente di eroico, apparentemente. Uomini e donne travolti dagli eventi, sopraffatti, bambini ancora troppo bambini per poter capire che il mondo intorno stava cambiando e avrebbe cambiato anche loro, senza pietà e senza via di ritorno. Sulle vicende collettive si scrivono trattati di storia, su quelle individuali, romanzi.

La storia che sto per raccontarvi comincia con un pezzo di tappeto ritrovato tra le macerie fumanti della propria casa,  uno zerbino, da cui ripartire e ricostruire una vita d’amore cancellata dalle fiamme e dall’odio.

revolutie grupIn un periodo in cui buoni e cattivi si alternavano e si confondevano, i colonnelli della quinta Direzione dei servizi segreti rumeni, la Securitate, quelli del Potere per intenderci, il 21 dicembre del 1989 furono arrestati e condannati –  insieme ad altri dirigenti – al carcere. Mio zio era tra loro. Tutta la sua vita, le certezze e le incongruenze di una generazione comunista, la durezza e la fragilità di un regime quarantennale furono congelati in un attimo. Non si sa dove fu portato, né cosa gli fu fatto… niente, né allora, né oggi.
L’unica cosa certa è che dopo 182 giorni di reclusione, le porte della sua cella, con la stessa semplicità con cui erano state chiuse,  si riaprirono, catapultandolo in una Romania che nel frattempo non era più la stessa. 182 giorni senza alcuna notizia della famiglia, degli amici, senza nessun legame con l’esterno. La sua mente era rimasta lì, alla mattina del 21 dicembre, poco prima della grande manifestazione popolare convocata dal dittatore Ceausescu, quando – intuendo gli eventi che sarebbero successi – portò via lontano moglie e figli dalla piazza Palatului, quella della rivoluzione. La loro casa era a una manciata di metri dalla storia, a Bucarest, proprio di fronte al Comitato Centrale del Partito Comunista, sede del governo. Le centomila persone radunate che avrebbero dovuto consolidare il traballante regime agli occhi del mondo si trasformarono in un piano suicida senza ritorno.

Le immagini in diretta Tv ci mostravano i combattimenti tra le forze dell’ordine e il popolo, poi, quando i militari passarono dalla parte dei manifestanti,  tra l’esercito e i misteriosi gruppi chiamati “cellule terroriste” che difendevano il regime e il dittatore.

La manipolazione mediatica, alimentata dalla più clamorosa disinformazione, è nata in quei giorni, nella Romania libera e democratica.  Nessuno seppe mai chi erano questi  “terroristi”, se esistevano veramente e, visto che nessuno fu arrestato né processato, la loro identità resta avvolta nel mistero ancora oggi. Si parlava di soldati libanesi, iracheni o siriani, forze speciali addestrate dal regime per intervenire in quei giorni tormentati. Le notizie erano frammentate e confuse. Incollati alla diretta Tv assistevamo a scene di delirio filtrate da disinformazione, sullo sfondo si vedeva la casa dei miei zii che andava in fiamme. Dalle poche e frammentarie notizie, avevamo appreso grazie ad una sorta di passaparola che mio zio era stato arrestato e che mia zia con i figli si era rifugiata da amici fuori città.
Mio padre era uscito di casa la mattina precedente e non era ancora tornato. La gente invadeva la strade delle grandi e piccole città del paese, gridando la propria voglia di libertà. I giovani universitari, comprese le ragazze –  che il regime aveva addestrato militarmente per altri scopi –  si organizzavano in posti di blocco armati per difendere le loro città dagli attacchi dei presunti terroristi.
Fu la più surreale delle mie esperienze,  come se mi fossi frantumata in pezzi, guardando dal di fuori l’interno che si decomponeva. Ero sopraffatta dagli eventi. Da un lato c’era l’euforia contagiosa per la caduta del regime, si era finalmente avverato il nostro sogno di libertà: la libertà di parlare, di viaggiare, di protestare, di scegliere, di sbagliare, di vivere!  Dall’altro c’era anche un’angoscia sempre meno latente, quella di un futuro ignoto e che ignoravo quanto clemente sarebbe stato con mio padre, figlio del Partito.

Sono scesa in strada anche io con gli universitari, imbracciando il mio fucile; per giorni abbiamo difeso la città, in pattuglie improvvisate, fermando le auto, controllando i portabagagli, affiancando l’esercito nella protezione degli edifici pubblici. Non rientravamo a casa neanche di notte, ci sentivamo eroi del nostro nuovo tempo! Le notti erano lunghe e dure, arrivavano spesso notizie su gruppi di terroristi che stavano entrando in città e dovevamo rimanere svegli e vigili.  Ma non era solo la paura del “nemico” a tenermi sveglia, piuttosto erano stati d’animo contraddittori,  ero libera, ma avevo paura, per tutti i miei cari che stavano già pagando per gli errori di un passato sbagliato,  punito dalla storia.tancuri

Ero una rivoluzionaria della Rivoluzione che aveva sgretolato la mia famiglia, portato in prigione mio zio e allontanato per giorni mio padre, di cui non sapevamo ancora nulla. Pattugliavo le strade e avevo il terrore di scorgerlo in qualche auto dell’esercito, catturato insieme ai dirigenti del partito.  Quando poi una mattina finalmente tornò, si chiuse nel silenzio per giorni, nella sua stanza, con i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue insicurezze e chissà cos’altro ancora che gli lacerava l’animo.

La piazza di Bucarest, dove ebbe inizio tutto, era un cumulo di macerie. Quando dopo giorni mia zia riuscì a ritornare in quella che era stata una volta la sua casa, recuperò poche cose: alcuni libri che si salvarono dall’incendio forati dai proiettili, qualche straccio, un pezzo di tappeto. Me lo ricordo bene, era un tappeto persiano, grande, rosso porpora, con fiori, bellissimo. Mio zio lo aveva comprato in Iran, in una delle volte che accompagnò Ceausescu in visita diplomatica. Mia zia ritagliò le parti che non erano state bruciate e ne fece uno zerbino che mise davanti alla porta della nuova casa.

Quando mio zio uscì di prigione, dopo 6 mesi di silenzio, aveva in mente una sola cosa: ritrovare la propria famiglia. In una Bucarest irriconoscibile, aveva pochi indizi e nessuna certezza. Sapeva solo che tutti quelli che avevano perso la casa durante la rivoluzione abitavano adesso in un quartiere nuovo, con più di cinquanta palazzi, tutti uguali, grigi e con odore di vernice fresca, l’ultimo quartiere costruito dal regime prima del collasso. Nessuno era a conoscenza del fatto che fosse ancora vivo né lui sapeva cosa restava dei propri affetti.

Per giorni cominciò a girare per i nuovi parchi, entrando in ogni palazzo, ogni scala, ogni interno, alla ricerca di qualche indizio, qualche notizia, la conferma a qualche speranza. E poi eccolo lì, inaspettato, lo zerbino dal colore familiare, davanti ad una porta uguale alle altre, tra volti anonimi di un quartiere sconosciuto. Esausto e disperato bussò. Ci vollero alcuni minuti prima che qualcuno sbirciasse dallo spioncino, infiniti! Mia zia non aspettava nessuno, non coscientemente intendo, una sagoma smagrita di un uomo con la barba lunga lo attendeva all’uscio.

Quello che seguì fu un abbraccio lungo quanto lunghi furono i 182 giorni senza di lui.




Români de Nobel

Unul dintre câștigătorii premiului Nobel pentru Chimie din acest an este Stefan W. Hell, un neamț născut în Sântana, lângă Arad, în 1962, și emigrat în Germania, împreună cu familia, în 1978.  E anul în care, după încheierea vizitei oficiale a cancelarului german, Helmut Schmidt, la București, a fost stabilit un tarif unic,  de 4.000 de mărci,  pentru repatrierea fiecărui cetățean român de etnie germană, în baza unui acord privind reîntregirea unor familii destrămate de istorie.  Familia lui Stefan Hell a plătit, probabil, la rândul ei, prețul libertății, calculat cu cinism de autoritățile comuniste,  și a reușit,  astfel,  să părăsească România.  “Un Nobel de 4000 e mărci”…ar fi un titlu bun, dacă nu ar fi prea forțat.

Știrea privind Nobelul pentru Chimie acordat lui Stefan Hell, născut în România, a mai atenuat puțin din dezamăgirea privind Nobelul pentru literatură, ratat, și în acest an, de către țara noastră.  Patru au fost candidații români: Nicolae Breban, Norma Manea, Varujan Vosganian și Mircea Cărtărescu (dacă mă întrebați eu pentru cine aș fi votat,  vă răspund,  fără să stau pe gânduri: Varujan Vosganian, pentru romanul său tulburător, Cartea șoaptelor). Mircea Cărtărescu este candidat de ceva vreme,  însă anul acesta presa din țară era optimistă, pentru că agențiile de pariuri  britanice îl dădeau cu șanse mari, plasându-l locul al 16-lea, înaintea unor scriitori ca Umberto Eco, Amos Oz sau Salman Rushdie. În cele din urmă, premiul a fost câștigat de un scriitor francez, Patrick Modiano, care nu se afla printre “preferații” agențiilor de pariuri. Prietena mea, scriitoarea Cleopatra Lorințiu, făcea zilele trecute o observație interesantă: după anunțarea câștigătorului, un renumit critic literar francez și-a exprimat bucuria că Modiano “a reușit să depășească bariera limbii franceze și să iasă în lume”. Dacă francezii simt handicapul limbii,  atunci când e vorba de intrarea în competiția pentru Nobel, toți cei care au promovat cu convingere marile șanse ale lui Mircea Cărtărescu pot fi considerați lipsiți de simțul realității.  Singurul scriitor român,  care s-a apropiat cel mai mult de Nobelul pentru literatură,  a fost Lucian Blaga. In anul 1956,  profesorul Basil Munteanu, aflat la Paris, si poeta Rosa del Conte, au înaintat la Stockholm documentația pentu decernarea premiului lui Lucian Blaga. Tocmai când propunerea era să fie acceptată, statul român nu și-a dat acordul pentru nominalizarea poetului, considerat “burghez”. În romanul Luntrea lui Caron,  Blaga, prin vocea protagonistului, Axente Creangă, scrie: “Eram al doilea,  ca voturi primite,  imediat după spaniolul care a cules laurii. Personal eram nespus de mulţumit de succesul moral pe care izbuteam să-l obţin, cu totul pierdut, cum eram, într-un buzunar de provincie transilvană.”

Câștigarea unui premiu Nobel de către un român, care nu mai trăiește în România și nu s-a format aici (chiar dacă Stefan Hell a recunoscut că, atunci când, la 16 ani,  a ajuns în Germania, avea cunoștințe mult mai avansate decât colegii lui nemți), a declanșat, cum era de așteptat,  multe dezbateri, adesea sterile, în care analiști, lideri de opinie și politicieni s-au întrebat,  retoric,  dacă e nevoie să pleci din România pentru a putea spera la un premiu Nobel.  Fiind în pre-campanie electorală,  politicienii au considerat că era un bun prilej pentru a da vina unii pe alții pentru toate Nobelurile ratate,  de ieri și de astăzi.

Ar fi câștigat Hell premiul Nobel,  dacă ar fi rămas în România? Sau Herta Muller, laureata premiului Nobel pentru literatură, în 2009, ar fi avut vreo șansă,  dacă nu ar fi fugit în Germania, în 1987, și ar fi rămas să scrie în limba română, să reprezinte ceea ce criticii consideră o “cultură minoră”, care va avea mereu handicapul limbii?  Scriitorul și jurnalistul evreu,  Elie Wiesel, născut la Sighetu Marmației și deportat la Auschwitz, în 1944, ar fi câștigat vreodată premiul Nobel pentru Pace (care i-a fost conferit în 1986) și ar fi scris cartea Noaptea, apreciată ca fiind una dintre cele mai importante mărturii literare despre Holocaust,  dacă,  după eliberarea din lagăr, în 1945,  s-ar fi întors în România și nu ar fi ajuns la Paris?  Medicul și omul de știință George Emil Palade ar fi câștigat Premiul Nobel pentru Medicină și Fiziologie, dacă nu ar fi plecat, în 1946 în America, unde s-a afirmat printr-o carieră strălucită, devenind unul dintre pionierii biologiei celulare?

Sau, poate ar fi avut destinul lui Ştefan Procopiu, savantul care a  calculat,  cu un an înaintea danezului Niels Bohr,  momentul magnetic al electronului, numit şi “magnetonul”, ce avea să poarte numele “Bohr-Procopiu”? Pentru că mediul academic român nu a popularizat la timp descoperirea, Premiul Nobel a fost luat de colegul şi prietenul său danez. Ceauşescu,  însă,  i-a recunoscut meritele. I-a dăruit un Moskvitch, automobil de lux în acele vremuri. Cu maşină la scară şi onorat cu cele mai înalte distincţii, Procopiu a fost aşezat pe piedestalul pe care îl merită,  atunci când s- a aflat în România că mai multe universităţi din SUA, Germania şi Franţa luaseră în serios importantele sale descoperiri cu privire la “efectul Procopiu” şi “fenomenul Procopiu”. Dar nu a câștigat premiul Nobel. Îmi vin în minte cuvintele lui Charles Best, unul dintre cercetătorii atestați pentru descoperirea insulinei, deși Nicolae Paulescu este descoperitorul de drept. “Nu are importanță cine a făcut descoperirea: are importanță cine convinge lumea”. Pe Nicolae Paulescu pur și simplu nu l-a propus nimeni, chiar dacă publicase,  cu 8 luni înainte de acordarea premiului Nobel, într-o revistă belgiană de specialitate,  un studiu, considerat revoluționar,  despre importanța pancreinei (numită ulterior insulină),  în tratamentul diabetului.  Ocuparea Bucureștiului de către trupele germane, în 1916, și schimbările politice au marcat destinul lui Nicolae Păulescu. Atitudinile sale antisemite de extremă dreapta nu l-au favorizat în ochii occidentului. Comitetul Nobel a recunoscut, în cele din urmă, meritele și prioritatea lui N.C. Paulescu în descoperirea tratamentului antidiabetic, a admis că situația politică din România, din 1923, a influențat în  nominalizarea lui, dar a exclus posibilitatea unei reparații oficiale.

Fiecare dintre românii care au câștigat premiul Nobel, departe de țară, a avut un destin individual,  marcat în mod irevocabil și, adesea dramatic, de tăvălugul istoriei,  și tocmai de aceea fuga era singura formă de revoltă, care le garanta supraviețuirea. În cele din urmă, însă, fiecare dintre ei, într-un fel sau altul, a rămas legat de țara de origine, prin fire invizibile, greu de destrămat. Pentru Stefan Hell, “locul în care te-ai născut e un loc special,  care îți rămâne în suflet oriunde te-ai duce”. Herta Muller a câștigat premiul Nobel pentru “onestitatea cu care descrie lumea celor dezrădăcinați din spațiul fost comunist”, o inepuizabilă și catarctică sursă de inspirație. George Emil Palade a dorit ca, după moarte (a murit în 2008, în California), cenușa să-i fie împrăștiată în Munții Bucegi, de pe Vârful cu Dor…




I Premi Nobel erranti della Romania

Il vincitore del Premio Nobel per la Chimica 2014 si chiama  Stefan W. Hell  (premiato insieme agli americani Eric Betzig e William E. Moerner).
Stefan è tedesco nato e cresciuto in Romania.
Questa è la storia di un ebreo, due tedeschi e un americano…. tutti rumeni, tutti premi Nobel!
Uniti da un destino comune, segnato dall’appartenenza a un paese, la Romania, e alla sua storia tormentata degli ultimi 60 anni, furono obbligati a scappare, per salvarsi, per sopravvivere e per seguire i propri sogni.  Si potrebbe ricorrere a una frase fatta, pronunciata troppo spesso dalle nostre parti (oggi purtroppo attuale anche in Italia) : “spesso bisogna andare lontano per affermare le proprie ambizioni”.  In questi giorni,  nel mio paese, politici, opinionisti, analisti, gente comune si sono lanciati in commenti sterili su questo tema;  una domanda tra tutte, quasi retorica: “se fossero rimasti in Romania, sarebbero ugualmente riusciti a vincere un Nobel”?
Credo che invece di chiedersi se avessero comunque fatto la storia, sarebbe forse più giusto domandarsi se fossero sopravvissuti alla storia!

Stefan Hell è nato in Romania, nel 1962, nella cittadina di Arad, in una famiglia di șvabi (cittadini di origine sassone) che è emigrata in Germania, nel 1978.  Ha vissuto in Romania per 16 anni e, a sentire il suo racconto, la passione per la chimica è nata mentre frequentava il Liceo Nikolas Lenau di Timisoara, lo stesso che ha frequentato un precedente vincitore del premio Nobel, questa volta, per la letteratura, la scrittrice Herta Muller. La loro storia personale si incrocia con la storia di un paese, che, per più di quarant’anni, è stato vittima di una dittatura comunista dalla cui follia senza limiti volevano fuggire tutti. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la fuga era all’ordine del giorno, perché non c’era speranza. Tutti volevano fuggire, anche a costo della morte. Dal 1968 al 1989, oltre 200.000 cittadini rumeni di etnia sassone hanno lasciato la Romania. Nessuno poteva lasciare la nazione ma, per accordi con Israele e la Germania Federale, i sassoni e gli ebrei dietro lauto compenso (spesso coperto dalle rispettive nazioni), potevano ricongiungersi agli stati di origine. Il dittatore Ceaușescu capì presto quanto potesse essere redditizio questo commercio umano e rimarranno nella storia le sue parole: “Il petrolio, gli ebrei e gli șvabi sono le merci più ricercate da esportazione“. A partire dal 1978, il “prezzo” di un cittadino rumeno e della sua rimpatriata in Germania fu stabilito a 4000 marchi, per poi arrivare, nel 1988, a 8950 marchi.
Il neo premio Nobel per la Chimica, Stefan W. Hell,  ha lasciato la Romania nel 1978, insieme alla sua famiglia,  pagando probabilmente anch’egli  in marchi  il prezzo della propria libertà.  “Andarmene via è stato un grande sollievo per me, la Romania era un paese comunista dove non ti era permesso di dire quello che pensavi. Da un altro lato, invece, la scuola che ho seguito a Timișoara era molto buona e gli studi fatti lì mi hanno arricchito di conoscenze più avanzate di quelle dei miei colleghi tedeschi“, ha dichiarato recentemente in un’intervista Hell. Per lui, il “luogo dove sei nato è un posto speciale, che ti rimane nel cuore, ovunque tu vada“.  A volte la memoria di questi luoghi è tenera e i ricordi sono pieni di luce, a volte invece sono sommersi nel buio del terrore. E’ questo il caso di Herta Muller, che ha sviluppato il suo stile letterario proprio tra ombre soffocanti che avvolgevano la sua memoria, ottenendo il Nobel nel 2009 grazie alla “concentrazione della sua poesia e alla franchezza della sua prosa con le quali ha saputo descrivere il paesaggio dei diseredati” come si può leggere nella motivazione dell’Accademia di Stoccolma.
La scrittrice, poetessa e saggista è nota per la descrizione della dura vita sotto il regime comunista di Ceaușescu. Nel 1987 fuggì dalla Romania insieme al marito dopo essere stata licenziata nel 1979 (era traduttrice di tedesco) perché si era rifiutata di collaborare con la Securitate, la famigerata polizia segreta del regime, la stessa che la seguì e la perseguitò negli anni a venire.  ” Ti rendevi conto che sono stati di nuovo a casa tua da un quadro o una sedia spostati”, racconta. ” Se senti il rumore dell’ascensore mentre sei in casa a leggere un libro e ti viene il panico perché credi che siano venuti a prenderti. Tutto perde la sua ovvietà, cambia la visione e la percezione delle cose. In Romania ero così estranea che ero devastata da quella che provavo. Non c’è niente di più orribile che essere estranea in una patria che ti vuole morta»
Quando finalmente riuscì a ottenere dalla Securitate il dossier di 914 pagine che la riguardava, Herta Müller scoprì che veniva definita “un pericoloso nemico dello Stato da combattere”. Il suo nome in codice non era più Herta, ma “Cristina” alla quale venivano addebitate “distorsioni tendenziose della realtà del Paese“,  contenute nei suoi due libri scritti in tedesco, pubblicati in Romania, ma violentemente tagliati dalla censura comunista.  

Se veramente la storia è la somma dei fatti che si succedono, a volte apparentemente sconnessi, e “a fare la storia sono gli individui che hanno vissuto un attimo diverso dall’altro“, come stessa Herta Muller sostiene, dalla stessa parte del mondo,  ma in un’epoca diversa, un altro rumeno, premio Nobel per la pace, Ellie Wiesel, ha dato il proprio contributo pagando uno dei dazi più terribili, l’Olocausto, sopravvivendo.

Wiesel è uno scrittore statunitense, di cultura ebraica e di lingua francese, nato in Romania, a Sighetu Marmației (nella regione di Maramureș), nel 1928, in una famiglia ebrea. Fu deportato nel 1944 ad Auschwitz,  insieme ai genitori a alle tre sorelle. I genitori e una delle sorelle morirono qui, invece le altre due sorelle le ritroverà, qualche anno dopo, in un orfanotrofio in Francia. Per dieci anni dopo la fine della guerra, Wiesel si rifiutò di scrivere o parlare della propria esperienza durante l’Olocausto. Come molti sopravvissuti, non riusciva a trovare le parole per raccontare la sua esperienza. Poi scrisse 900 pagine di memorie,  “E il Mondo rimane in silenzio”, in cui raccontava la sua esperienza, nuda  e cruda, vissuta nel campo di Auschwitz, esperienza che gli ha fatto perdere la fede in Dio e l’umanità. L’opera, giudicata dai critici “rabbiosa”, fu riscritta, in versione più breve, in francese, con il titolo La notte, che fu subito considerato un capolavoro.   

“Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. “ Così descrive il suo tragico arrivo al campo di Auschwitz, nel settembre del 1944.  Quando, nel 1986, riceve il premio Nobel per la pace, il Comitato Norvegese dei Premi Nobel lo definì “messaggero per l’umanità”,  perché aveva consegnato al mondo un potente messaggio di “pace, di espiazione e di dignità umana“, attraverso la sua personale esperienza nei campi di concentramento.  A distanza di cinquant’anni il libro La Notte è stato tradotto in 30 lingue, ed è considerato, accanto a Se questo è un uomo, di Primo Levi e al Diario di Anna Frank, come uno dei capolavori della letteratura sull’Olocausto. 

La nostra storia dei Nobel rumeni,  erranti nel mondo, si chiude con George Emil Palade, un biologo e medico rumeno, naturalizzato statunitense, che ha vinto, nel 1974, il premio Nobel per la medicina e fisiologia, grazie alle sue ricerche nella biologia cellulare. Nato a Iași (nella regione della Moldavia), nel 1912, ottiene il titolo di dottore in Medicina, presso l’Università di Bucarest. Nel 1946, decide di lasciare la Romania, che, dopo l’abolizione della monarchia, si avviava nel tunnel comunista. La sua carriera è folgorante: da ricercatore all’Università di New York  all’Istituto Rockfeller, poi alla Yale University e all’Università di San Diego in California. Nel 1986, il presidente Ronald Reagan gli accorda la medaglia nazionale per meriti nel campo della scienza. Palade muore in California, all’età di 96 anni,  e le sue ceneri vengono sparse, per volontà sua, nei Monti Bucegi, in Romania, da una vetta chiamata Vârful cu Dor, la Vetta della Nostalgia.