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La Rivoluzione in un tappeto

La rivoluzione che ho vissuto 25 anni fa ha per me l’odore del fumo acre, denso e intenso che si sprigionava dalle pagine dei libri squarciati dai proiettili. Tanti libri con pagine sfregiate, un piccolo vuoto in mezzo, un cerchio perfetto che racchiudeva tra i suoi margini bruciati le parole mancanti di una storia, ancora non scritta, di un popolo, svegliatosi in un giorno freddo e cupo di dicembre per gridare in piazza la propria disperazione, incurante dei carri armati e dei soldati. Tanti di loro, giovanissimi come me, con i fucili pronti a sparare, combattuti tra il dovere, la paura e la voglia di abbracciare gli stessi vicini e parenti che li fronteggiavano dall’altra parte della barricata.  Poi, c’è la storia individuale della mia famiglia, che non ha niente di eroico, apparentemente. Uomini e donne travolti dagli eventi, sopraffatti, bambini ancora troppo bambini per poter capire che il mondo intorno stava cambiando e avrebbe cambiato anche loro, senza pietà e senza via di ritorno. Sulle vicende collettive si scrivono trattati di storia, su quelle individuali, romanzi.

La storia che sto per raccontarvi comincia con un pezzo di tappeto ritrovato tra le macerie fumanti della propria casa,  uno zerbino, da cui ripartire e ricostruire una vita d’amore cancellata dalle fiamme e dall’odio.

revolutie grupIn un periodo in cui buoni e cattivi si alternavano e si confondevano, i colonnelli della quinta Direzione dei servizi segreti rumeni, la Securitate, quelli del Potere per intenderci, il 21 dicembre del 1989 furono arrestati e condannati –  insieme ad altri dirigenti – al carcere. Mio zio era tra loro. Tutta la sua vita, le certezze e le incongruenze di una generazione comunista, la durezza e la fragilità di un regime quarantennale furono congelati in un attimo. Non si sa dove fu portato, né cosa gli fu fatto… niente, né allora, né oggi.
L’unica cosa certa è che dopo 182 giorni di reclusione, le porte della sua cella, con la stessa semplicità con cui erano state chiuse,  si riaprirono, catapultandolo in una Romania che nel frattempo non era più la stessa. 182 giorni senza alcuna notizia della famiglia, degli amici, senza nessun legame con l’esterno. La sua mente era rimasta lì, alla mattina del 21 dicembre, poco prima della grande manifestazione popolare convocata dal dittatore Ceausescu, quando – intuendo gli eventi che sarebbero successi – portò via lontano moglie e figli dalla piazza Palatului, quella della rivoluzione. La loro casa era a una manciata di metri dalla storia, a Bucarest, proprio di fronte al Comitato Centrale del Partito Comunista, sede del governo. Le centomila persone radunate che avrebbero dovuto consolidare il traballante regime agli occhi del mondo si trasformarono in un piano suicida senza ritorno.

Le immagini in diretta Tv ci mostravano i combattimenti tra le forze dell’ordine e il popolo, poi, quando i militari passarono dalla parte dei manifestanti,  tra l’esercito e i misteriosi gruppi chiamati “cellule terroriste” che difendevano il regime e il dittatore.

La manipolazione mediatica, alimentata dalla più clamorosa disinformazione, è nata in quei giorni, nella Romania libera e democratica.  Nessuno seppe mai chi erano questi  “terroristi”, se esistevano veramente e, visto che nessuno fu arrestato né processato, la loro identità resta avvolta nel mistero ancora oggi. Si parlava di soldati libanesi, iracheni o siriani, forze speciali addestrate dal regime per intervenire in quei giorni tormentati. Le notizie erano frammentate e confuse. Incollati alla diretta Tv assistevamo a scene di delirio filtrate da disinformazione, sullo sfondo si vedeva la casa dei miei zii che andava in fiamme. Dalle poche e frammentarie notizie, avevamo appreso grazie ad una sorta di passaparola che mio zio era stato arrestato e che mia zia con i figli si era rifugiata da amici fuori città.
Mio padre era uscito di casa la mattina precedente e non era ancora tornato. La gente invadeva la strade delle grandi e piccole città del paese, gridando la propria voglia di libertà. I giovani universitari, comprese le ragazze –  che il regime aveva addestrato militarmente per altri scopi –  si organizzavano in posti di blocco armati per difendere le loro città dagli attacchi dei presunti terroristi.
Fu la più surreale delle mie esperienze,  come se mi fossi frantumata in pezzi, guardando dal di fuori l’interno che si decomponeva. Ero sopraffatta dagli eventi. Da un lato c’era l’euforia contagiosa per la caduta del regime, si era finalmente avverato il nostro sogno di libertà: la libertà di parlare, di viaggiare, di protestare, di scegliere, di sbagliare, di vivere!  Dall’altro c’era anche un’angoscia sempre meno latente, quella di un futuro ignoto e che ignoravo quanto clemente sarebbe stato con mio padre, figlio del Partito.

Sono scesa in strada anche io con gli universitari, imbracciando il mio fucile; per giorni abbiamo difeso la città, in pattuglie improvvisate, fermando le auto, controllando i portabagagli, affiancando l’esercito nella protezione degli edifici pubblici. Non rientravamo a casa neanche di notte, ci sentivamo eroi del nostro nuovo tempo! Le notti erano lunghe e dure, arrivavano spesso notizie su gruppi di terroristi che stavano entrando in città e dovevamo rimanere svegli e vigili.  Ma non era solo la paura del “nemico” a tenermi sveglia, piuttosto erano stati d’animo contraddittori,  ero libera, ma avevo paura, per tutti i miei cari che stavano già pagando per gli errori di un passato sbagliato,  punito dalla storia.tancuri

Ero una rivoluzionaria della Rivoluzione che aveva sgretolato la mia famiglia, portato in prigione mio zio e allontanato per giorni mio padre, di cui non sapevamo ancora nulla. Pattugliavo le strade e avevo il terrore di scorgerlo in qualche auto dell’esercito, catturato insieme ai dirigenti del partito.  Quando poi una mattina finalmente tornò, si chiuse nel silenzio per giorni, nella sua stanza, con i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue insicurezze e chissà cos’altro ancora che gli lacerava l’animo.

La piazza di Bucarest, dove ebbe inizio tutto, era un cumulo di macerie. Quando dopo giorni mia zia riuscì a ritornare in quella che era stata una volta la sua casa, recuperò poche cose: alcuni libri che si salvarono dall’incendio forati dai proiettili, qualche straccio, un pezzo di tappeto. Me lo ricordo bene, era un tappeto persiano, grande, rosso porpora, con fiori, bellissimo. Mio zio lo aveva comprato in Iran, in una delle volte che accompagnò Ceausescu in visita diplomatica. Mia zia ritagliò le parti che non erano state bruciate e ne fece uno zerbino che mise davanti alla porta della nuova casa.

Quando mio zio uscì di prigione, dopo 6 mesi di silenzio, aveva in mente una sola cosa: ritrovare la propria famiglia. In una Bucarest irriconoscibile, aveva pochi indizi e nessuna certezza. Sapeva solo che tutti quelli che avevano perso la casa durante la rivoluzione abitavano adesso in un quartiere nuovo, con più di cinquanta palazzi, tutti uguali, grigi e con odore di vernice fresca, l’ultimo quartiere costruito dal regime prima del collasso. Nessuno era a conoscenza del fatto che fosse ancora vivo né lui sapeva cosa restava dei propri affetti.

Per giorni cominciò a girare per i nuovi parchi, entrando in ogni palazzo, ogni scala, ogni interno, alla ricerca di qualche indizio, qualche notizia, la conferma a qualche speranza. E poi eccolo lì, inaspettato, lo zerbino dal colore familiare, davanti ad una porta uguale alle altre, tra volti anonimi di un quartiere sconosciuto. Esausto e disperato bussò. Ci vollero alcuni minuti prima che qualcuno sbirciasse dallo spioncino, infiniti! Mia zia non aspettava nessuno, non coscientemente intendo, una sagoma smagrita di un uomo con la barba lunga lo attendeva all’uscio.

Quello che seguì fu un abbraccio lungo quanto lunghi furono i 182 giorni senza di lui.




Rivoglio i miei vent’anni… quando facevo il militare!

Ho vissuto per 21 anni sotto il regime comunista di Ceaușescu, anche se i miei genitori appartenevano a quello che oggi chiamano la “classe privilegiata” e che all’epoca era la “nomenclatura” del partito. Nel dicembre del 1989, quando scoppiò la rivoluzione rumena, mio padre e tutti i dirigenti del partito comunista rimasero chiusi nei palazzi del potere, con le armi in dotazione, aspettando ordini, chiarimenti, decisioni da Bucarest, nella confusione e nel caos più totale in cui cadde il paese intero. Invece di ordini dall’alto, arrivarono i rivoluzionari, dal basso, dal popolo,  che occuparono le strutture del potere. Con il terrore che non sarebbe mai tornato a casa o che sarebbe finito in prigione, ci scrisse una lettera che ci lasciò la mattina del 20 dicembre, quando uscì di casa come tutte le mattine, per andare al lavoro. Ci diceva che tutto quello che aveva fatto negli ultimi vent’anni lo aveva fatto per proteggere noi.

Ma non è su questo che voglio scrivere anche se, a dire il vero,  ci sarebbe tanto da parlare sul conflitto interiore che mi ha logorato a lungo tra l’amore indiscusso per mio padre e la tentazione di giudicarlo per errori e colpe non direttamente sue, ma del regime, per i troppi silenzi, le molte omissioni e l’eccessiva sottomissione.

Nell’aprile del 2014, un sondaggio realizzato in Romania dall’istituto IRES scopre che il 66% dei rumeni intervistati vorrebbero di nuovo conducătorul iubit (leader amato), ossia Nicoale Ceaușescu,  a guidare il paese, perché, secondo loro,  prima si viveva meglio. Quello che ha sorpreso gli analisti politici rumeni e stranieri non è stata l’alta percentuale di nostalgici, ma il fatto che, negli ultimi 4 anni, il loro numero è cresciuto addirittura del 25%. Nonostante i venticinque anni trascorsi dalla caduta del regime comunista, la sanguinosa rivolta popolare,  la fucilazione del dittatore con la moglie Elena nel giorno di Natale ’89 e all’instaurazione della democrazia, i rumeni rimpiangono il loro lavoro sicuro, la casa a cui pensava il partito, il fatto che tutti avevano la vita che sembrava la migliore possibile. “Questa sorta di nostalgia di comunismo non è altro il che frutto di una cattiva memoria”, hanno sentenziato gli analisti. Beh si, facile dare sentenze e tirare sempre in ballo la memoria collettiva! mormant-ceausescu1Io preferisco appellarmi alla memoria individuale, la mia, e vi dirò, con onestà,  di cosa sono nostalgica e cosa invece non mi manca di quei 21 anni vissuti nella Romania comunista.

Ho nostalgia delle belle giornate e serate passate a divorare libri, in assenza della tivù come alternativa “contagiosa”, visto che c’era un solo canale e due ore di programma, dalle otto alle dieci di sera. Ho nostalgia dei cartoni animati russi (uno in particolare, di un lupo che inseguiva sempre un coniglio furbacchione, che non si faceva mai acchiappare e che ho fatto vedere anche a mio figlio quando era piccolo), dei film russi che adoravo (il grande regista Nikita Mihalkov!), dei libri vietati dalla censura che ci passavamo sotto mano e leggevamo di nascosto.
Non ho nostalgia invece della propaganda quotidiana che dilagava in tv nei discorsi del dittatore, della censura che vietava libri, poeti, scrittori e ogni forma di arte libera; delle continue interruzioni di corrente imposte come forma di risparmio energetico, che ci obbligavano a fare i compiti al lume di una candela o di una lampada a petrolio.

Ho nostalgia del mio liceo pieno di alunni, con le sezioni che arrivavano alla lettera M, del cortile della scuola in cui ci incontravamo nelle pause a parlare di tante cose, sottovoce.  Mi ricordo che, quando qualcuno raccontava una delle tante barzellette che circolavano sul dittatore o sul regime, sapevamo che era un “provocatore” e seguivamo i consigli dei genitori di non ridere, mai. Eravamo tanti quelli della mia generazione, ci chiamavano decreței,  figli del decreto 770 del 1967,  che vietava gli aborti. Ci piaceva credere che eravamo frutti di un amore e non di un decreto. Non scherzavamo molto perché sentivamo anche noi  i nostri genitori raccontarsi di qualche amica o conoscente che era morta nel tentativo clandestino di abortire. Non mi mancano assolutamente le file davanti allo studio medico del liceo, per i controlli ginecologici obbligatori a cui ci dovevamo sottoporre dopo che una di noi era rimasta incinta ed aveva provato ad interrompere la gravidanza in casa, rischiando la vita.

Mi mancano invece le lunghe file davanti ai teatri, dove la censura non era ancora entrata o era troppo ignorante per capire i sotterfugi dei registi, che trasformavano  gli spettacoli in vere forme de dissidenza culturale. Mi mancano le serate di cinema alla Casa degli studenti, dove ho visto i film di Visconti, Fellini, Pasolini, trascurati dalla censura, nella mischia di film russi, indiani o cinesi. Non mi mancano i documentari propagandistici che precedevano i grandi film d’autore e neanche i festival dedicati a Ceaușescu, per nutrire il suo eccessivo culto della personalità.

Ho nostalgia dei corsi universitari, alla Facoltà di Lettere di Cluj,  una piccola isola di universalità, in cui avevamo la libertà di viaggiare con la mente senza che nessuno potesse impedircelo, in cui ognuno veniva gratificato per i propri meriti, apprezzato per il suo valore. Mi mancano le colonie estive dove andavano i più meritevoli, come premio per il loro impegno alla “costruzione di una società comunista esemplare“.  Non mi mancano i giorni di militare (si ho fatto anche il militare!), obbligatori per le studentesse, in cui in cui venivamo istruite per diventare un esercito di donne. Non mi mancano neanche le lunghe marce sotto il sole, con il Kalashnikov appeso sulla spalla, la stessa che diventava viola per il rinculo del fucile quando andavamo al poligono a sparare, un maledetto Kalashnikov che non riuscivo mai a rimontare correttamente, sempre con un pezzo avanzato in mano da collocare.

E cosa dire delle ficoada-permisele davanti ai negozi di alimentari, con la scheda chiamata cartelă in mano, per ottenere un pezzo di pane  e un litro di latte al giorno e, mensilmente, 1 kg di zucchero, 1 di farina, 1 di olio, 10 uova, 1 kilo di carne,  la nostra razione,  per me e mia sorella, che eravamo studentesse e vivevamo da sole? No, quelle non mi mancano affatto!

Noi, da privilegiati, potevamo acquistare ogni tanto anche altre cose, il caffè solubile ad esempio, il cioccolato cinese, salame,  qualche deodorante tedesco, saponi ungheresi, scarpe di qualità destinate solo all’esportazione,  medicinali, cotone idrofilo, qualche libro vietato dalla censura.  La nostra casa diventava a volte una sorta di mensa per gli amici, i meno fortunati.

Ho nostalgia degli inverni a casa dei miei nonni, in campagna, dove le stufe in terracotta riscaldavano le stanze per tutta la notte. Non mi mancano, ovviamente, gli inverni in città, con sole due ore di riscaldamento al giorno, a volte a 35 gradi sotto zero, in una pazza corsa al risparmio energetico del regime.

Ho nostalgia delle visite in Romania di tanti Elena (signora), l’amica francese di mia mamma, che portava con lei tutto il profumo parigino del mondo proibito.  I miei primi jeans “capitalisti” me li ha portati lei e mi hanno invidiato tutti a scuola. Mio padre preferiva non essere presente alle visite, perché trattandosi di una straniera, questo presupponeva che doveva fare un rapporto ai servizi segreti su quello di cui si era parlato, visto che ogni cittadino proveniente dall’occidente era indicato come una possibile pericolosa spia capitalista.

Mi mancano le serate in famiglia, quando ci riunivamo tutti, alla fine di un’altra giornata vissuta in quel mondo “protetto”, dove ognuno aveva una casa, un lavoro,  un progetto di vita chiuso tra tante limitazioni e divieti ma “sicuro”. Non mi mancano quei minuti in cui spiavo con un bicchiere appoggiato al muro mio padre e mia madre che, chiusi in bagno, aprivano l’acqua del rubinetto e cominciavano a parlare delle decisioni spesso assurde e sofferte che gli ordini arrivati da Bucarest li obbligavano a prendere, cose di cui non si poteva parlare liberamente. Presto avrei capito che il rumore dell’acqua copriva le parole “ribelli” di mio padre che sapeva che tutta la casa era piena di microspie… tranne il bagno appunto, una traccia di buonsenso forse in un mondo ormai impazzito!




La Casa del Popolo che si vede dalla Luna

Non so se il dittatore rumeno Nicolae Ceaușescu e la sua consorte Elena sognavano di andare sulla luna e guardare il frutto delle loro manie di onnipotenza, ma la megalomane Casa del Popolo a Bucarest di certo l’avrebbero vista, dato che è una delle tre cose che si dice si riescano a vedere dalla Luna, (ndr insieme alla Muraglia Cinese e il Pentagono americano). Con questo enorme edificio (e non solo questo, purtroppo), i due sono entrati nella stessa storia che alla fine li ha puniti: non sono riusciti ad inaugurare la costruzione da record perché furono fucilati durante la rivoluzione anti-comunista del dicembre 1989.
I primati però restano: il più grande e costoso edificio amministrativo del mondo, il secondo come grandezza, dopo il Pentagono, il terzo come volume dopo Cape Canaveral in Florida e la Piramide di Quetzalcoatl di Messico. Il volume della Casa del Popolo supera inoltre del 10% la Piramide di Cheope.

I numeri sono da capogiro: 84 metri di altezza, 340.000 metri quadri, 4 livelli sotto terra, 17 piani fuori terra, 3100 stanze, un reticolo di tunnel sotterranei percorribili in auto che collegava la Casa del Popolo all’aeroporto di Bucarest  (nel caso in cui il dittatore avrebbe dovuto scappare dalla furia del popolo), due bunker antiatomici, un labirinto di stanze ed enormi magazzini. Sette anni di lavoro ininterrotto, con l’ausilio di 20.000 operai e 200 architetti, un milione di metri cubi di marmo estratto dalla Transilvania (in quegli anni la richiesta di marmo fu così alta che le pietre tombali dovettero essere realizzate in altri materiali), 3500 tonnellate di cristallo, 700.000 tonnellate di acciaio e bronzo e 900.000 di metri cubi di legno. Tutti materiali di provenienza autoctona.

Per cinque anni, a partire dal 25 giugno del 1984, quando ebbero inizio i lavori, il dittatore accompagnato dai ministri ha visitato ogni sabato alle 14.00  il cantiere e ha seguito da vicino il corso dei lavori, stravolgendo spesso il progetto, che si doveva conformare perfettamente la sua mania di grandezza.
Negli anni ’80,  Ceaușescu decise di voltare le spalle alla Unione Sovietica e di ispirarsi al modello cinese e coreano, per il quale aveva una vera e propria venerazione. Gli storici dell’arte parlano ironicamente di uno stile architettonico “greco-coreano”  e sono estremamente critici su questa sorta di “classicismo socialista”, sull’analfabetismo culturale ed estetico, sul gusto devastante per il “gigantismo”, che caratterizza la costruzione della Casa del Popolo. Tutto ciò non ha impedito però  alla prestigiosa rivista americana Newsweek di includere la Casa del Popolo tra le nuove meraviglie del mondo moderno, assieme all’Opera di Sidney e al Golden Gate di San Francisco.

Il risvolto della medaglia fu che 40.000 costruzioni, tra case, ospedali, chiese e sinagoghe furono demolite per far posto al nuovo grandioso edificio, un quinto del centro storico di Bucarest distrutto, 57.000 famiglie sradicate dalle loro abitazioni da un giorno all’altro e obbligate a trasferirsi in negli appartamenti stretti dei palazzoni grigi edificati dal regime comunista. Un numero ancora oggi sconosciuto di operai morirono sul lavoro e altrettanto ignoto è il numero delle persone che si suicidarono dopo aver perso in una notte tutto in seguito alla demolizione dei loro immobili. Le leggende parlano di corpi seppelliti nei sotterranei del palazzo, per nascondere il vero prezzo di vite umane che il popolo dovette pagare per veder edificare la “sua Casa”.
E’ invece storia e non  leggenda purtroppo il fatto che, mentre il regime edificava il suo costosissimo monumento, la gente pativa la fame, giustificata dalla “legge dell’alimentazione razionale” che prevedeva un certo numero di calorie da assumere a persona. Tutto il cibo prodotto in patria veniva venduto all’estero in cambio della valuta straniera necessaria per mantenere i costi della Casa del Popolo.
Nel 1989 la rivoluzione anti-comunista mise fine al regime dittatoriale di Nicolae Ceaușescu, alla sua megalomania e con essa all’ultimazione dei lavori di costruzione del palazzo. Il nuovo governo propose la demolizione della Casa del Popolo, ma, a questo punto, fu proprio il popolo, tramite referendum, a decidere che l’edificio doveva rimanere come simbolo di tutti i sacrifici che ogni rumeno sopportò negli anni della sua costruzione.

Oggi la Casa del Popolo è diventata il Palazzo del Parlamento e, inclusa in tutte le guide turistiche di Bucarest, si può parzialmente visitare pagando un biglietto d’ingresso di 5 euro. Si è calcolato che se qualcuno volesse dedicare almeno un minuto alla visita di ogni stanza del palazzo, impiegherebbe almeno 3 giorni e mezzo per vederlo tutto! (tranquilli, la visita dura circa 30 minuti)
Resta ancora il mistero sulla zona sotterranea, dove è vietato l’ingresso, e proprio per questo le leggende nate negli anni ’80 trovano ancora terreno fertile. I dipendenti della Casa del Popolo sostengono che di notte i fantasmi degli operai morti si aggirano per i corridoi e che dai sotterranei si sentono rumori inquietanti. Nel 2002, il regista Costa Gavras ha girato qui le scene del film Amen, (ndr che avrebbe dovuto girare nel Vaticano ma gli fu negato il permesso). Michael Jackson si esibì nel suo primo concerto in Romania proprio nella piazza della Casa del Popolo, davanti ad un fiume di persone che il grande viale – più ampio degli Champs Elysées di Parigi – a fatica trattenne.

Nel 1990, il magnate Rupert Murdoch tentò di comprare l’edificio offrendo l’incredibile cifra di 1 miliardo di dollari senza riuscire a convincere le autorità di allora.
Si narra che i costi della non ancora ultimata realizzazione siano di 3.3 miliardi di euro, capitale rimasto nelle mani del popolo a memoria di una folle mania di grandezza al cui prezzo ogni rumeno ha suo malgrado contribuito.