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Timișoara-Trevisoara e il mistero delle (tante) ragazze

Un mio amico italiano è tornato da poco da Timișoara. E’ andato per la prima volta in Romania ed è rimasto colpito. “State meglio di noi, sicuramente!”, è stata la sua opinione” a caldo”. Poi ha ammesso che era partito con tanti pregiudizi, “sai, qua quando dici rumeno pensi soprattutto a quelli che ne combinano di tutti i colori e ti aspetti di trovarli anche lì”. Il suo soggiorno è andato benissimo, ha fatto tranquillamente passeggiate notturne per la città, è andato nei locali, ha visto pochi poliziotti in giro e nessun incidente spiacevole. “E’ impossibile fare un passo senza sentire parlare italiano, perciò mi sono sentito a casa, perché l’Italia lì è ovunque”,  èuniversitate stata la sua seconda osservazione, ragionevole, visto che, con più di 10.000 italiani che ci vivono, Timisoara è in parte “italianizzata”. Non a caso, viene chiamata anche l‘ottava provincia veneta, ossia Trevisoara. Il mio amico è rimasto impressionato da tante cose: i chilometri di piste ciclabili, i numerosi parchi, tanti spazi per i bambini, la gente rilassata e tranquilla, i terrazzi dei ristoranti affollati fino a tarda notte, i migliaia di giovani studenti universitari (più di 100.000, tra cui anche tanti italiani che studiano medicina) che inondano le strade e conferiscono alla città un’affascinante aria cosmopolita.
Timișoara è sempre stata cosmopolita, non solo per la lunga dominazione asburgica ma anche per la vicinanza all’Europa Occidentale. Chiamata anche la Piccola Vienna,  per la sua architettura barocca molto simile alla capitale austriaca, Timișoara ha una lunga storia. La prima attestazione documentaria risale al 1212,  quando era una città fortificata,  di nome Castrum Temesiensis. Conobbe un eccezionale sviluppo al tempo del re Carlo Roberto d’Angiò (nipote di Carlo II di Napoli), che, nel 1307,  costruì qui un palazzo reale e vi trasferì la capitale del regno d’Ungheria. Dal 1552, per quasi 200 anni, Ttimisoaraimișoara si trovò sotto la dominazione ottomana, poi, per altri 200 anni, sotto la dominazione austro-ungarica. Con queste premesse storiche, non è difficile spiegare perché a Timișoara si parlano oggi tante lingue: rumeno, tedesco, ungherese, serbo, turco, romanes ed è un eccellente esempio di convivenza tra popoli,  culture e religioni diverse.

La città ha due primati  in Europa: è l’unica ad avere tre teatri di stato in rumeno, tedesco e ungherese ed è stata la prima ad essere illuminata con lampioni elettrici.

La sua vicinanza all’Europa Occidentale,  a Belgrado (180km) e a Budapest (300km), gli ha conferito uno statuto privilegiato durante gli anni bui del comunismo. Mi ricordo che all’epoca, quando si diceva Timișoara si intendeva un’isola di capitalismo proibito che il regime non era riuscito a controllare. Ci si andava per comprare i jeans capitalisti, le scarpe firmate, le sigarette americane, per bere la Coca Cola nei ristoranti, per comprare i vinili dei Rolling Stones o dei Pink Floyd, per vedere le TV straniere alle quali nessun’altra parte della Romania aveva accesso. Non a caso, la Rivoluzione anticomunista del 1989, che portò alla caduta del regime di Nicolae Ceaușescu,  iniziò proprio a Timișoara, nei primi giorni di dicembre. Dopo le prime manifestazioni di protesta contro il regime, a cui parteciparono migliaia di persone, fu decretata l’applicazione della legge marziale, vietando alla popolazione di circolare in gruppitimis più numerosi di 2 persone. Sfidando i divieti, un gruppo di 30 giovani avanzarono verso la Cattedrale ortodossa,  dove fluttuarono bandiere rumene, con lo stemma comunista tagliato. L’immagine simbolo della rivoluzione rumena è costituita da questi 30 manifestanti che iniziarono a cantare “Deșteaptă-te române” (Destati, rumeno), l’attuale inno nazionale rumeno, all’epoca vietato e la cui esecuzione in pubblico era punita dal codice penale. I militari fecero immediatamente partire una raffica di mitra che uccise alcuni dei  manifestanti,  ferendone gravemente altri. Fu l’inizio della fine di un’epoca e di un regime dittatoriale che guidò la Romania per più di 50 anni. Così la piccola Vienna è diventata anche la capitale della Rivoluzione anti-comunista.
La caduta del regime comunista ha aperto le porte al capitalismo, così tanto desiderato. I primi imprenditori arrivati qui negli anni ’90 sono stati gli italiani, soprattutto quelli provenienti dal Nordest, che cercavano nuovi spazi industriali a costi produttivi inferiori. La Romania, desiderosa di cambiare strada e di dirigersi verso la globalizzazione, metteva a disposizione intere praterie e tante agevolazioni fiscali.  Di conseguenza, si registrò una vasta processione di aziende italiane, che portarono a Timisoara oltre 10.000 italiani. Oggi, la Camera di Commercio Rumena conta oltre 2000 aziende italiane presenti nella zona, tra le 13.000 registrate in tutta la Romania.  L’italiano è diventata la settima lingua parlata e, gli italiani, i visitatori più assidui, per lavoro o per turismo, quello classico, ma anche quello dentistico,  molto fiorente negli ultimi anni.

La città occupa il terzo posto tra le città rumene più visitate dai turisti stranieri, dopo Bucarest e Brașov. Attraversata da due fiumi, Bega e Timiș,  Timișoara detiene il più ampio numero di edifici storici della Romania, anche perché in questo posto la politica urbanistica del regime comunista, distruttiva e irrispettosa verso il passato,  non hapiata unirii lasciato la sua impronta, come a Bucarest ad esempio. L’elenco dei monumenti di Timișoara è talmente vasto che si perde presto il conto e si fa fatica a programmare un itinerario in anticipo. Nel centro storico, compatto e monumentale, due sono le tappe obbligatorie:  Piața Unirii (Piazza dell’Unità), la piazza principale della città vecchia di Timișoara, in stile barocco, chiamata anche “Union Square” per la presenza delle due cattedrali opposte: quella ortodossa serba e quella cattolica; Piața Victoriei (Piazza della Vittoria o della Rivoluzione),  luogo della memoria e, nello  stesso tempo,  l’anima della città,  un crocevia per shopping, caffè bar e luoghi di ritrovo. La sua forma rettangolare è dominata, ai suoi opposti, dalla Cattedrale ortodossa e dal teatro dell’Opera.  Seguendo il corso del Bega, si possono scegliere percorsi alternativi, lungo gli argini e sui ponti, o nei quartieri semiperiferici, come Cetate, Josefin e Fabric, con i loro insiemi architettonici urbani che meritano di essere visti. Si può decidere semplicemente anche solo di fare su e giù passando da un tram all’atro tram, scendendo per ammirare un fregio barocco su un portone o il silenzio dei tanti parchi e giardini, più di 450 ettari, che hanno conferito alla città un altro  soprannome, quello della Città dei Fiori.parchi

Ho lasciato alla fine un altro primato di Timișoara: questa città è l’unico posto dalla Romania dove si registra un vecchio fenomeno genetico collegato al fatto che la maggior parte dei neonati sono di sesso femminile, il risultato è che ci sono 4 ragazze per ogni uomo.  La causa resta misteriosa, anche se si presuppone che risulti dalle condizioni climatiche, acqua e terra locale. Certo sta che il cosiddetto Fenomeno Timișoara rende la città particolarmente attraente per i turisti stranieri,  grazie alle sue bellezze… e non parlo solo di arte!




Rivoglio i miei vent’anni… quando facevo il militare!

Ho vissuto per 21 anni sotto il regime comunista di Ceaușescu, anche se i miei genitori appartenevano a quello che oggi chiamano la “classe privilegiata” e che all’epoca era la “nomenclatura” del partito. Nel dicembre del 1989, quando scoppiò la rivoluzione rumena, mio padre e tutti i dirigenti del partito comunista rimasero chiusi nei palazzi del potere, con le armi in dotazione, aspettando ordini, chiarimenti, decisioni da Bucarest, nella confusione e nel caos più totale in cui cadde il paese intero. Invece di ordini dall’alto, arrivarono i rivoluzionari, dal basso, dal popolo,  che occuparono le strutture del potere. Con il terrore che non sarebbe mai tornato a casa o che sarebbe finito in prigione, ci scrisse una lettera che ci lasciò la mattina del 20 dicembre, quando uscì di casa come tutte le mattine, per andare al lavoro. Ci diceva che tutto quello che aveva fatto negli ultimi vent’anni lo aveva fatto per proteggere noi.

Ma non è su questo che voglio scrivere anche se, a dire il vero,  ci sarebbe tanto da parlare sul conflitto interiore che mi ha logorato a lungo tra l’amore indiscusso per mio padre e la tentazione di giudicarlo per errori e colpe non direttamente sue, ma del regime, per i troppi silenzi, le molte omissioni e l’eccessiva sottomissione.

Nell’aprile del 2014, un sondaggio realizzato in Romania dall’istituto IRES scopre che il 66% dei rumeni intervistati vorrebbero di nuovo conducătorul iubit (leader amato), ossia Nicoale Ceaușescu,  a guidare il paese, perché, secondo loro,  prima si viveva meglio. Quello che ha sorpreso gli analisti politici rumeni e stranieri non è stata l’alta percentuale di nostalgici, ma il fatto che, negli ultimi 4 anni, il loro numero è cresciuto addirittura del 25%. Nonostante i venticinque anni trascorsi dalla caduta del regime comunista, la sanguinosa rivolta popolare,  la fucilazione del dittatore con la moglie Elena nel giorno di Natale ’89 e all’instaurazione della democrazia, i rumeni rimpiangono il loro lavoro sicuro, la casa a cui pensava il partito, il fatto che tutti avevano la vita che sembrava la migliore possibile. “Questa sorta di nostalgia di comunismo non è altro il che frutto di una cattiva memoria”, hanno sentenziato gli analisti. Beh si, facile dare sentenze e tirare sempre in ballo la memoria collettiva! mormant-ceausescu1Io preferisco appellarmi alla memoria individuale, la mia, e vi dirò, con onestà,  di cosa sono nostalgica e cosa invece non mi manca di quei 21 anni vissuti nella Romania comunista.

Ho nostalgia delle belle giornate e serate passate a divorare libri, in assenza della tivù come alternativa “contagiosa”, visto che c’era un solo canale e due ore di programma, dalle otto alle dieci di sera. Ho nostalgia dei cartoni animati russi (uno in particolare, di un lupo che inseguiva sempre un coniglio furbacchione, che non si faceva mai acchiappare e che ho fatto vedere anche a mio figlio quando era piccolo), dei film russi che adoravo (il grande regista Nikita Mihalkov!), dei libri vietati dalla censura che ci passavamo sotto mano e leggevamo di nascosto.
Non ho nostalgia invece della propaganda quotidiana che dilagava in tv nei discorsi del dittatore, della censura che vietava libri, poeti, scrittori e ogni forma di arte libera; delle continue interruzioni di corrente imposte come forma di risparmio energetico, che ci obbligavano a fare i compiti al lume di una candela o di una lampada a petrolio.

Ho nostalgia del mio liceo pieno di alunni, con le sezioni che arrivavano alla lettera M, del cortile della scuola in cui ci incontravamo nelle pause a parlare di tante cose, sottovoce.  Mi ricordo che, quando qualcuno raccontava una delle tante barzellette che circolavano sul dittatore o sul regime, sapevamo che era un “provocatore” e seguivamo i consigli dei genitori di non ridere, mai. Eravamo tanti quelli della mia generazione, ci chiamavano decreței,  figli del decreto 770 del 1967,  che vietava gli aborti. Ci piaceva credere che eravamo frutti di un amore e non di un decreto. Non scherzavamo molto perché sentivamo anche noi  i nostri genitori raccontarsi di qualche amica o conoscente che era morta nel tentativo clandestino di abortire. Non mi mancano assolutamente le file davanti allo studio medico del liceo, per i controlli ginecologici obbligatori a cui ci dovevamo sottoporre dopo che una di noi era rimasta incinta ed aveva provato ad interrompere la gravidanza in casa, rischiando la vita.

Mi mancano invece le lunghe file davanti ai teatri, dove la censura non era ancora entrata o era troppo ignorante per capire i sotterfugi dei registi, che trasformavano  gli spettacoli in vere forme de dissidenza culturale. Mi mancano le serate di cinema alla Casa degli studenti, dove ho visto i film di Visconti, Fellini, Pasolini, trascurati dalla censura, nella mischia di film russi, indiani o cinesi. Non mi mancano i documentari propagandistici che precedevano i grandi film d’autore e neanche i festival dedicati a Ceaușescu, per nutrire il suo eccessivo culto della personalità.

Ho nostalgia dei corsi universitari, alla Facoltà di Lettere di Cluj,  una piccola isola di universalità, in cui avevamo la libertà di viaggiare con la mente senza che nessuno potesse impedircelo, in cui ognuno veniva gratificato per i propri meriti, apprezzato per il suo valore. Mi mancano le colonie estive dove andavano i più meritevoli, come premio per il loro impegno alla “costruzione di una società comunista esemplare“.  Non mi mancano i giorni di militare (si ho fatto anche il militare!), obbligatori per le studentesse, in cui in cui venivamo istruite per diventare un esercito di donne. Non mi mancano neanche le lunghe marce sotto il sole, con il Kalashnikov appeso sulla spalla, la stessa che diventava viola per il rinculo del fucile quando andavamo al poligono a sparare, un maledetto Kalashnikov che non riuscivo mai a rimontare correttamente, sempre con un pezzo avanzato in mano da collocare.

E cosa dire delle ficoada-permisele davanti ai negozi di alimentari, con la scheda chiamata cartelă in mano, per ottenere un pezzo di pane  e un litro di latte al giorno e, mensilmente, 1 kg di zucchero, 1 di farina, 1 di olio, 10 uova, 1 kilo di carne,  la nostra razione,  per me e mia sorella, che eravamo studentesse e vivevamo da sole? No, quelle non mi mancano affatto!

Noi, da privilegiati, potevamo acquistare ogni tanto anche altre cose, il caffè solubile ad esempio, il cioccolato cinese, salame,  qualche deodorante tedesco, saponi ungheresi, scarpe di qualità destinate solo all’esportazione,  medicinali, cotone idrofilo, qualche libro vietato dalla censura.  La nostra casa diventava a volte una sorta di mensa per gli amici, i meno fortunati.

Ho nostalgia degli inverni a casa dei miei nonni, in campagna, dove le stufe in terracotta riscaldavano le stanze per tutta la notte. Non mi mancano, ovviamente, gli inverni in città, con sole due ore di riscaldamento al giorno, a volte a 35 gradi sotto zero, in una pazza corsa al risparmio energetico del regime.

Ho nostalgia delle visite in Romania di tanti Elena (signora), l’amica francese di mia mamma, che portava con lei tutto il profumo parigino del mondo proibito.  I miei primi jeans “capitalisti” me li ha portati lei e mi hanno invidiato tutti a scuola. Mio padre preferiva non essere presente alle visite, perché trattandosi di una straniera, questo presupponeva che doveva fare un rapporto ai servizi segreti su quello di cui si era parlato, visto che ogni cittadino proveniente dall’occidente era indicato come una possibile pericolosa spia capitalista.

Mi mancano le serate in famiglia, quando ci riunivamo tutti, alla fine di un’altra giornata vissuta in quel mondo “protetto”, dove ognuno aveva una casa, un lavoro,  un progetto di vita chiuso tra tante limitazioni e divieti ma “sicuro”. Non mi mancano quei minuti in cui spiavo con un bicchiere appoggiato al muro mio padre e mia madre che, chiusi in bagno, aprivano l’acqua del rubinetto e cominciavano a parlare delle decisioni spesso assurde e sofferte che gli ordini arrivati da Bucarest li obbligavano a prendere, cose di cui non si poteva parlare liberamente. Presto avrei capito che il rumore dell’acqua copriva le parole “ribelli” di mio padre che sapeva che tutta la casa era piena di microspie… tranne il bagno appunto, una traccia di buonsenso forse in un mondo ormai impazzito!




La Casa del Popolo che si vede dalla Luna

Non so se il dittatore rumeno Nicolae Ceaușescu e la sua consorte Elena sognavano di andare sulla luna e guardare il frutto delle loro manie di onnipotenza, ma la megalomane Casa del Popolo a Bucarest di certo l’avrebbero vista, dato che è una delle tre cose che si dice si riescano a vedere dalla Luna, (ndr insieme alla Muraglia Cinese e il Pentagono americano). Con questo enorme edificio (e non solo questo, purtroppo), i due sono entrati nella stessa storia che alla fine li ha puniti: non sono riusciti ad inaugurare la costruzione da record perché furono fucilati durante la rivoluzione anti-comunista del dicembre 1989.
I primati però restano: il più grande e costoso edificio amministrativo del mondo, il secondo come grandezza, dopo il Pentagono, il terzo come volume dopo Cape Canaveral in Florida e la Piramide di Quetzalcoatl di Messico. Il volume della Casa del Popolo supera inoltre del 10% la Piramide di Cheope.

I numeri sono da capogiro: 84 metri di altezza, 340.000 metri quadri, 4 livelli sotto terra, 17 piani fuori terra, 3100 stanze, un reticolo di tunnel sotterranei percorribili in auto che collegava la Casa del Popolo all’aeroporto di Bucarest  (nel caso in cui il dittatore avrebbe dovuto scappare dalla furia del popolo), due bunker antiatomici, un labirinto di stanze ed enormi magazzini. Sette anni di lavoro ininterrotto, con l’ausilio di 20.000 operai e 200 architetti, un milione di metri cubi di marmo estratto dalla Transilvania (in quegli anni la richiesta di marmo fu così alta che le pietre tombali dovettero essere realizzate in altri materiali), 3500 tonnellate di cristallo, 700.000 tonnellate di acciaio e bronzo e 900.000 di metri cubi di legno. Tutti materiali di provenienza autoctona.

Per cinque anni, a partire dal 25 giugno del 1984, quando ebbero inizio i lavori, il dittatore accompagnato dai ministri ha visitato ogni sabato alle 14.00  il cantiere e ha seguito da vicino il corso dei lavori, stravolgendo spesso il progetto, che si doveva conformare perfettamente la sua mania di grandezza.
Negli anni ’80,  Ceaușescu decise di voltare le spalle alla Unione Sovietica e di ispirarsi al modello cinese e coreano, per il quale aveva una vera e propria venerazione. Gli storici dell’arte parlano ironicamente di uno stile architettonico “greco-coreano”  e sono estremamente critici su questa sorta di “classicismo socialista”, sull’analfabetismo culturale ed estetico, sul gusto devastante per il “gigantismo”, che caratterizza la costruzione della Casa del Popolo. Tutto ciò non ha impedito però  alla prestigiosa rivista americana Newsweek di includere la Casa del Popolo tra le nuove meraviglie del mondo moderno, assieme all’Opera di Sidney e al Golden Gate di San Francisco.

Il risvolto della medaglia fu che 40.000 costruzioni, tra case, ospedali, chiese e sinagoghe furono demolite per far posto al nuovo grandioso edificio, un quinto del centro storico di Bucarest distrutto, 57.000 famiglie sradicate dalle loro abitazioni da un giorno all’altro e obbligate a trasferirsi in negli appartamenti stretti dei palazzoni grigi edificati dal regime comunista. Un numero ancora oggi sconosciuto di operai morirono sul lavoro e altrettanto ignoto è il numero delle persone che si suicidarono dopo aver perso in una notte tutto in seguito alla demolizione dei loro immobili. Le leggende parlano di corpi seppelliti nei sotterranei del palazzo, per nascondere il vero prezzo di vite umane che il popolo dovette pagare per veder edificare la “sua Casa”.
E’ invece storia e non  leggenda purtroppo il fatto che, mentre il regime edificava il suo costosissimo monumento, la gente pativa la fame, giustificata dalla “legge dell’alimentazione razionale” che prevedeva un certo numero di calorie da assumere a persona. Tutto il cibo prodotto in patria veniva venduto all’estero in cambio della valuta straniera necessaria per mantenere i costi della Casa del Popolo.
Nel 1989 la rivoluzione anti-comunista mise fine al regime dittatoriale di Nicolae Ceaușescu, alla sua megalomania e con essa all’ultimazione dei lavori di costruzione del palazzo. Il nuovo governo propose la demolizione della Casa del Popolo, ma, a questo punto, fu proprio il popolo, tramite referendum, a decidere che l’edificio doveva rimanere come simbolo di tutti i sacrifici che ogni rumeno sopportò negli anni della sua costruzione.

Oggi la Casa del Popolo è diventata il Palazzo del Parlamento e, inclusa in tutte le guide turistiche di Bucarest, si può parzialmente visitare pagando un biglietto d’ingresso di 5 euro. Si è calcolato che se qualcuno volesse dedicare almeno un minuto alla visita di ogni stanza del palazzo, impiegherebbe almeno 3 giorni e mezzo per vederlo tutto! (tranquilli, la visita dura circa 30 minuti)
Resta ancora il mistero sulla zona sotterranea, dove è vietato l’ingresso, e proprio per questo le leggende nate negli anni ’80 trovano ancora terreno fertile. I dipendenti della Casa del Popolo sostengono che di notte i fantasmi degli operai morti si aggirano per i corridoi e che dai sotterranei si sentono rumori inquietanti. Nel 2002, il regista Costa Gavras ha girato qui le scene del film Amen, (ndr che avrebbe dovuto girare nel Vaticano ma gli fu negato il permesso). Michael Jackson si esibì nel suo primo concerto in Romania proprio nella piazza della Casa del Popolo, davanti ad un fiume di persone che il grande viale – più ampio degli Champs Elysées di Parigi – a fatica trattenne.

Nel 1990, il magnate Rupert Murdoch tentò di comprare l’edificio offrendo l’incredibile cifra di 1 miliardo di dollari senza riuscire a convincere le autorità di allora.
Si narra che i costi della non ancora ultimata realizzazione siano di 3.3 miliardi di euro, capitale rimasto nelle mani del popolo a memoria di una folle mania di grandezza al cui prezzo ogni rumeno ha suo malgrado contribuito.