Gli orfani bianchi della Romania
Li chiamano orfani bianchi, sono bambini tristi, che crescono troppo in fretta, tra nostalgia e rabbia. Sono i figli delle badanti, partite per cercare fortuna altrove, donne altrettanto tristi, quelle che incontriamo per le strade delle nostre città mentre accompagnano qualche anziano aggrappato al loro braccio… e alla vita. In quella camminata muta, con lo sguardo spento, c’è spesso il dolore di una madre che ha dovuto abbandonare i propri figli lasciandoli ad un padre, un parente, un amico, un vicino di casa. A loro volta, molti mariti, spaventati dalle proprie responsabilità genitoriali, crollano tra depressione ed alcolismo, peggiorando una situazione familiare già precaria.
Secondo Unicef, in Romania, sono oltre 350.000 i bambini vittime di questa situazione!
Mi sono sempre chiesta quanto grande possa essere la disperazione che ti spinge a lasciare tutto e tutti, ad andartene, convin
ta però di fare la cosa migliore proprio per quelli che stai abbandonando. Siamo circondati da migranti, siamo gli eredi di generazioni di emigranti… ma queste sono mamme che partono senza i propri figli, che scelgono di salvare la vita della propria famiglia rinunciandoci spesso per sempre!
Mi piace origliare quando le incontro negli aeroporti e raccontano la loro vita a qualche sconosciuto. Solo ascoltandole ti accorgi che non c’è risposta alla mia domanda. I racconti sono spesso interrotti da lacrime. Mi piace pensare che le badanti che incrocio negli aeroporti, a differenza di quelle dei giardinetti pubblici, siano più fortunate, significa che tornano a casa o che ci sono state, dopo due o tre anni, qualche giorno, quel poco che il loro lavoro le permette. Alcune hanno lasciato a casa bambini che ritrovano ormai adolescenti ribelli, incompresi, chiusi nella loro solitudine.
Maricica fa la badante in Italia da ben 17 anni, con la famiglia in Romania e, nel cuore, una figlia di soli 10 anni che, con i soldi spediti dalla madre, nel frattempo ha studiato, ha comprato casa e si è sposata diventando a sua volta mamma. Ora Maricica sta tornando a casa per il battesimo di suo nipote. La vita è andata avanti, imperterrita, scorrendo tra i fotogrammi sgranati delle video-chiamate di Skype, abbracci virtuali, sguardi mai limpidi e parole interrotte. La ascolto parlare, con la sua voce tremula, mentre dice che ha deciso di ritornare definitivamente in Romania, “ho perso tanti anni della vita di mia figlia, non voglio perdere anche mio nipote”.
La maggioranza dei bambini ha meno di dieci anni.

Nella categoria “orfani bianchi”, le sfumature di sofferenza sono purtroppo varie: ci sono i bambini che crescono con un solo genitore o senza entrambi; c’è chi può comunque affidarsi ad una rete di familiari e chi resta completamente solo finendo in un istituto per minori. Più della metà vive nelle zone rurali, dove è più frequente che siano le madri a partire, contrariamente alle grandi città dove più spesso è il padre ad allontanarsi.
Da alcuni anni, lo stato rumeno obbliga le famiglie ad avvisare le autorità, 40 giorni prima della loro partenza, e di lasciare a qualcuno la tutela legale del bambino. Le procedure sono lunghe e chi prende in affido un minore deve avere determinate caratteristiche: sottoporsi ad un test psicologico, dimostrare la possibilità economica di ospitare… per questo il più delle volte si evita di farlo. Tante, poi, non dicono che vanno a fare le badanti, si vergognano perché in Romania sono ingegneri, insegnanti, hanno una preparazione universitaria. Così partono e basta. Di recente è stata approvata una legge che multa i genitori che vanno via senza avvisare le autorità, con l’unico l’effetto di creare una sorta di rete clandestina.
Gli psicologi che studiano il fenomeno degli orfani bianchi li hanno paragonati ai cosiddetti bambini con la chiave al collo, della dittatura comunista, che passavano il loro tempo nei cortili, sempre con la chiave di casa appesa al collo, in attesa che i genitori rientrasser
o la sera, dopo una giornata di lavoro. Quella generazione, spiegano gli esperti, è spesso la stessa che oggi emigra lasciando i figli in patria, pensando che, così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia principalmente quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale. E’ una generazione che è stata abituata ad una distanza emotiva e a volte anche fisica dai genitori.
Faccio anche io parte di questa generazione, sono cresciuta anche io con la chiave al collo, che mi ricordo mostravamo con orgoglio, perché per noi era sinonimo di responsabilità, di fiducia, di autonomia, a 6 anni eravamo abbastanza grandi per poter tornare a casa da soli, aprire la porta, riscaldarci il pranzo, mangiare da soli o con i fratelli, fare i compiti, scendere a giocare, chiudere la porta dietro di noi, per poi riaprirla… Non concordo con la teoria degli esperti e il loro paragone con gli orfani bianchi di oggi, ho riversato anni di carenze affettive nell’amore per mio figlio e la mia famiglia, forse sono stata fortunata, ma questo ha poca importanza.
Mama te iubește, Mamma ti vuole bene
E’ il nome di un progetto iniziato da Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne rumene in Italia. Tramite la rete delle biblioteche nazionali romene, molti paesi e città romene si sono popolate di postazioni Internet da dove i bambini rimasti soli possono collegarsi gratuitamente via Skype per parlare e vedere le mamme a distanza. Non basta il telefono per restare in contatto con le mamme, spiega Silvia, serve il contatto audiovisivo, per vedere come crescono i propri figli, soprattutto quando le donne non riescono a tornare a casa almeno una volta all’anno. Non è come essere a casa con il proprio figlio e dargli il bacio della buona notte. Però ci si può confidare, fare i compiti insieme, ci si può guardare negli occhi, i bambini possono andare a dormire con l’immagine della mamma.
Per molti dei bambini rimasti in Romania, soprattutto nelle zone rurali i contatti sono radi, subentra il senso dell’abbandono, la depressione, soffrono di crisi d’ansia, hanno disturbi dell’apprendimento, sviluppano un senso di apatia e di insofferenza al mondo. Considerata l’età, il suicidio è frequente (dal 2008 ad oggi, in Romania, ci sono stati 40 casi di suicidi), mentre, stanchi, questi bambini aspettano e crescono troppo in fretta.


o splendidă și dureroasă metaforă a unui cerc al vieții care se închide, cu iubire primită, iubire dăruită…



ano, e che furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Mi sono ricordata il tema di mio figlio, ma soprattutto Il libro dei sussurri, uno dei più bei libri che abbia mai letto, una delle rare testimonianze letterarie sul destino tragico del popolo armeno. L’autore, Varujan Vosganian, è una personalità marcante, originale e complessa, della società rumena: politico, economista, matematico, professore universitario e poeta, è stato per due anni ministro delle Finanze in Romania ed è attualmente membro del Senato. Lo conosco da quasi vent’anni, so che molti di questi li ha passati a scrivere il suo libro, risultato di un lungo, sofferto e tormentato processo catartico, scavando nella memoria alla ricerca dolorosa dei suoni, gli odori, i fuochi, i motti, i ricordi, i sogni, i sacri cerimoniali, i rimpianti, i fantasmi, i racconti della sua famiglia di armeni e del suo popolo.







l tavolo bandito e, prima di iniziare lo “strano” pranzo pasquale nel cuore della notte, mangino il pane benedetto imbevuto nel vino, come simbolo del corpo e del sangue di Cristo. In mezzo al tavolo c’è il simbolo pasquale per eccellenza: le uova rosse. Colorare le uova di rosso è un rituale che simboleggia il sacrificio, il sangue di Cristo. Una leggenda racconta che, dopo la crocifissione di Gesù, i rabbini e i farisei abbiano organizzato un pranzo festivo e uno di loro abbia detto: “Quando questo gallo che mangiamo ritornerà in vita e queste uova diventeranno rosse, solo allora Gesù risorgerà“. All’improvviso, come per miracolo, le uova si sarebbero dipinte di rosso.
Le uova colorate sono anche i protagonisti di una tradizione popolare caratteristica, molto amata dai bambini: la battaglia delle uova. Il pranzo pasquale inizia proprio con questa strana gara delle uova: ognuno impugna in mano il proprio uovo sodo, lasciando la parte appuntita dell’uovo verso l’alto, scoperta. A questo punto si colpisce l’uovo dell’avversario e viceversa. Il grido di “battaglia” è: “Il Cristo è risorto!” e “Davvero è risorto!”. Dal primo uovo che si rompe devono mangiare tutti i membri della famiglia, perché si dice che in questo modo rimarranno sempre insieme. Dopo innumerevoli sfide con i commensali, vince l’uovo più resistente, ovvero colui che a fine del giro avrà l’uovo meno danneggiato. Gli anziani credono che il proprietario di questo uovo sia il più forte ed è quello che resisterà maggiormente alle malattie. Una variante di questa tradizione prevede che il perdente, ovvero quello con l’uovo maggiormente danneggiato, debba poi mangiare tutte le uova in gara. Nonostante si tratti di una gara piuttosto impegnativa per il fegato, sono ancora in molti a rispettarne le regole!
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