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La Rivoluzione in un tappeto

La rivoluzione che ho vissuto 25 anni fa ha per me l’odore del fumo acre, denso e intenso che si sprigionava dalle pagine dei libri squarciati dai proiettili. Tanti libri con pagine sfregiate, un piccolo vuoto in mezzo, un cerchio perfetto che racchiudeva tra i suoi margini bruciati le parole mancanti di una storia, ancora non scritta, di un popolo, svegliatosi in un giorno freddo e cupo di dicembre per gridare in piazza la propria disperazione, incurante dei carri armati e dei soldati. Tanti di loro, giovanissimi come me, con i fucili pronti a sparare, combattuti tra il dovere, la paura e la voglia di abbracciare gli stessi vicini e parenti che li fronteggiavano dall’altra parte della barricata.  Poi, c’è la storia individuale della mia famiglia, che non ha niente di eroico, apparentemente. Uomini e donne travolti dagli eventi, sopraffatti, bambini ancora troppo bambini per poter capire che il mondo intorno stava cambiando e avrebbe cambiato anche loro, senza pietà e senza via di ritorno. Sulle vicende collettive si scrivono trattati di storia, su quelle individuali, romanzi.

La storia che sto per raccontarvi comincia con un pezzo di tappeto ritrovato tra le macerie fumanti della propria casa,  uno zerbino, da cui ripartire e ricostruire una vita d’amore cancellata dalle fiamme e dall’odio.

revolutie grupIn un periodo in cui buoni e cattivi si alternavano e si confondevano, i colonnelli della quinta Direzione dei servizi segreti rumeni, la Securitate, quelli del Potere per intenderci, il 21 dicembre del 1989 furono arrestati e condannati –  insieme ad altri dirigenti – al carcere. Mio zio era tra loro. Tutta la sua vita, le certezze e le incongruenze di una generazione comunista, la durezza e la fragilità di un regime quarantennale furono congelati in un attimo. Non si sa dove fu portato, né cosa gli fu fatto… niente, né allora, né oggi.
L’unica cosa certa è che dopo 182 giorni di reclusione, le porte della sua cella, con la stessa semplicità con cui erano state chiuse,  si riaprirono, catapultandolo in una Romania che nel frattempo non era più la stessa. 182 giorni senza alcuna notizia della famiglia, degli amici, senza nessun legame con l’esterno. La sua mente era rimasta lì, alla mattina del 21 dicembre, poco prima della grande manifestazione popolare convocata dal dittatore Ceausescu, quando – intuendo gli eventi che sarebbero successi – portò via lontano moglie e figli dalla piazza Palatului, quella della rivoluzione. La loro casa era a una manciata di metri dalla storia, a Bucarest, proprio di fronte al Comitato Centrale del Partito Comunista, sede del governo. Le centomila persone radunate che avrebbero dovuto consolidare il traballante regime agli occhi del mondo si trasformarono in un piano suicida senza ritorno.

Le immagini in diretta Tv ci mostravano i combattimenti tra le forze dell’ordine e il popolo, poi, quando i militari passarono dalla parte dei manifestanti,  tra l’esercito e i misteriosi gruppi chiamati “cellule terroriste” che difendevano il regime e il dittatore.

La manipolazione mediatica, alimentata dalla più clamorosa disinformazione, è nata in quei giorni, nella Romania libera e democratica.  Nessuno seppe mai chi erano questi  “terroristi”, se esistevano veramente e, visto che nessuno fu arrestato né processato, la loro identità resta avvolta nel mistero ancora oggi. Si parlava di soldati libanesi, iracheni o siriani, forze speciali addestrate dal regime per intervenire in quei giorni tormentati. Le notizie erano frammentate e confuse. Incollati alla diretta Tv assistevamo a scene di delirio filtrate da disinformazione, sullo sfondo si vedeva la casa dei miei zii che andava in fiamme. Dalle poche e frammentarie notizie, avevamo appreso grazie ad una sorta di passaparola che mio zio era stato arrestato e che mia zia con i figli si era rifugiata da amici fuori città.
Mio padre era uscito di casa la mattina precedente e non era ancora tornato. La gente invadeva la strade delle grandi e piccole città del paese, gridando la propria voglia di libertà. I giovani universitari, comprese le ragazze –  che il regime aveva addestrato militarmente per altri scopi –  si organizzavano in posti di blocco armati per difendere le loro città dagli attacchi dei presunti terroristi.
Fu la più surreale delle mie esperienze,  come se mi fossi frantumata in pezzi, guardando dal di fuori l’interno che si decomponeva. Ero sopraffatta dagli eventi. Da un lato c’era l’euforia contagiosa per la caduta del regime, si era finalmente avverato il nostro sogno di libertà: la libertà di parlare, di viaggiare, di protestare, di scegliere, di sbagliare, di vivere!  Dall’altro c’era anche un’angoscia sempre meno latente, quella di un futuro ignoto e che ignoravo quanto clemente sarebbe stato con mio padre, figlio del Partito.

Sono scesa in strada anche io con gli universitari, imbracciando il mio fucile; per giorni abbiamo difeso la città, in pattuglie improvvisate, fermando le auto, controllando i portabagagli, affiancando l’esercito nella protezione degli edifici pubblici. Non rientravamo a casa neanche di notte, ci sentivamo eroi del nostro nuovo tempo! Le notti erano lunghe e dure, arrivavano spesso notizie su gruppi di terroristi che stavano entrando in città e dovevamo rimanere svegli e vigili.  Ma non era solo la paura del “nemico” a tenermi sveglia, piuttosto erano stati d’animo contraddittori,  ero libera, ma avevo paura, per tutti i miei cari che stavano già pagando per gli errori di un passato sbagliato,  punito dalla storia.tancuri

Ero una rivoluzionaria della Rivoluzione che aveva sgretolato la mia famiglia, portato in prigione mio zio e allontanato per giorni mio padre, di cui non sapevamo ancora nulla. Pattugliavo le strade e avevo il terrore di scorgerlo in qualche auto dell’esercito, catturato insieme ai dirigenti del partito.  Quando poi una mattina finalmente tornò, si chiuse nel silenzio per giorni, nella sua stanza, con i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue insicurezze e chissà cos’altro ancora che gli lacerava l’animo.

La piazza di Bucarest, dove ebbe inizio tutto, era un cumulo di macerie. Quando dopo giorni mia zia riuscì a ritornare in quella che era stata una volta la sua casa, recuperò poche cose: alcuni libri che si salvarono dall’incendio forati dai proiettili, qualche straccio, un pezzo di tappeto. Me lo ricordo bene, era un tappeto persiano, grande, rosso porpora, con fiori, bellissimo. Mio zio lo aveva comprato in Iran, in una delle volte che accompagnò Ceausescu in visita diplomatica. Mia zia ritagliò le parti che non erano state bruciate e ne fece uno zerbino che mise davanti alla porta della nuova casa.

Quando mio zio uscì di prigione, dopo 6 mesi di silenzio, aveva in mente una sola cosa: ritrovare la propria famiglia. In una Bucarest irriconoscibile, aveva pochi indizi e nessuna certezza. Sapeva solo che tutti quelli che avevano perso la casa durante la rivoluzione abitavano adesso in un quartiere nuovo, con più di cinquanta palazzi, tutti uguali, grigi e con odore di vernice fresca, l’ultimo quartiere costruito dal regime prima del collasso. Nessuno era a conoscenza del fatto che fosse ancora vivo né lui sapeva cosa restava dei propri affetti.

Per giorni cominciò a girare per i nuovi parchi, entrando in ogni palazzo, ogni scala, ogni interno, alla ricerca di qualche indizio, qualche notizia, la conferma a qualche speranza. E poi eccolo lì, inaspettato, lo zerbino dal colore familiare, davanti ad una porta uguale alle altre, tra volti anonimi di un quartiere sconosciuto. Esausto e disperato bussò. Ci vollero alcuni minuti prima che qualcuno sbirciasse dallo spioncino, infiniti! Mia zia non aspettava nessuno, non coscientemente intendo, una sagoma smagrita di un uomo con la barba lunga lo attendeva all’uscio.

Quello che seguì fu un abbraccio lungo quanto lunghi furono i 182 giorni senza di lui.




Sant’Andrea, la notte degli spiriti: aglio, cipolla e tanto mistero

Spesso mi chiedono se noi, gli ortodossi, siamo cristiani e più spesso sono i bambini che rivolgono questa domanda a mio figlio. La risposta è sempre la stessa: siamo cristiani grazie a Sant’Andrea, l’apostolo che, probabilmente, intorno al 50 d.c.,  convertì al cristianesimo i daci (gli antenati del popolo rumeno), ancora devoti al culto del loro dio Zamolxis.  “Il nostro Sant’Andrea?”, segue la domanda che dimostra l’incredulità davanti una simile “scoperta illuminante”.  Il “vostro” Sant’Andrea è il santo patrono della Romania,  sono più di 700.000 i rumeni che portano il nome di Andrei o Andreea (variante femminile) e che festeggiano il loro onomastico il 30 novembre, giorno dichiarato anche festa nazionale.
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La prima chiesa cristiana apparsa sul territorio romeno fu adibita in una grotta della regione Dobrogea, nel sud-est della Romania.  Si racconta che l’Apostolo Andrea, il primo discepolo di Cristo, giunto in Scizia Minore (la Romania di oggi), per diffondere la parola di Dio,  si rifugiò in questa zona dalle persecuzioni dei romani e i sacerdoti del culto locale lo ricevettero a braccia aperte, ospitandolo in una grotta in cui fu ulteriormente scavata la chiesa a lui dedicata.  Nelle vicinanze si trova anche la Sorgente di Sant’Andrea. Secondo la tradizione, quando il Santo Apostolo Andrea giunse in queste terre  non trovò in nessun posto dell’acqua, e allora colpì con il suo bastone la roccia nel posto dove c’è oggi la sorgente e l’acqua cominciò a sgorgare. La Grotta è un importante luogo di pellegrinaggio e di turismo religioso in Romania. 

Fin qui niente di strano. Il giorno di sant’Andrea è carico di sacralità  ma anche di tanta magia che rende questa festa veramente unica, grazie al suo intreccio, quasi mistico, tra elementi religiosi e riti pagani. La festività dedicata al santo coincide con un’altra festa pre-cristiana dedicata al lupo, che a quei tempi era adorato dai daci come una divinità.  Non a caso, lo stemma dei guerrieri era un drago con la testa di lupo. La notte tra il 29 e OLYMPUS DIGITAL CAMERA30 novembre viene chiamata anche la notte del lupo, giorno che porta l’inverno. Anche la figura popolare del santo è molto legata a quella del lupo, poiché  si crede che il santo stesso, in questo giorno raccoglie tutti i lupi e distribuisce ad ognuno una preda per tutto l’inverno. In alcune regioni della Romania si narra che in questa notte gli animali parlano tra di loro nella lingua universale, comprensibile anche dall’uomo. Purtroppo tale rivelazione, se ascoltata dalle orecchie umane, potrebbe costare molto caro… l’uomo perderebbe l’udito, se non la vita.

Nella tradizione popolare, questa notte è conosciuta soprattutto come la notte degli spiriti, degli strigoi,  delle figure mitologiche, una specie di morti viventi, che solo questa notte abbandonano le loro tombe e vagano sulla terra,  provocando diverse malefatte:  fanno impazzire gli uomini, distruggono i raccolti, fanno ammalare gli animali,  torturano e succhiano il sangue dei vivi, rovinano la bellezza delle ragazze, rapiscono i bambini senza battesimo e gli uomini con molti peccati.  Per proteggersi dalla forza malefica di questi morti viventi, esistevano – e tutt’ora sono conservate – una varietà di tradizioni, superstizioni ed usanze nelle quali il paganesimo si scontra con il cristianesimo. Stanotte si chiudono tutte le finestre e le porte delle case e vengono anche unte di aglio per tenere lontani gli spiriti malvagi.usturoi Si devono, inoltre, coprire tutti i fori che possano permettere l’entrata in casa. Le donne hanno il ruolo di proteggere la propria famiglia mettendo sottosopra tutte le pentole di casa, oppure spargendo per la casa pezzi di pane, in modo che gli spiriti maligni si fermino a raccorglierli evitando di entrare in casa. Ricordo che noi, i bambini, avevamo il compito di fare delle grosse trecce d’aglio, che si mettevano poi sopra le porte, ma anche quello di coprire tutti i buchi di porte e finestre, sempre con aglio, per non lasciare spazio agli spiriti di entrare.  E’ inutile dire che l’odore forte di aglio allontanava qualsiasi essere,  vivente o no,  che si avvicinava alle case!!cimitir

Quello che più mi incuriosiva e allo stesso tempo mi terrorizzava era un altro rituale, a cui i bambini non potevano assistere, per rivelare l’autore di un crimine o di un furto. Anche gli investigatori più bravi ne sarebbero invidiosi! Un gruppo di uomini andavano al cimitero a mezzanotte muniti di candele e di un vaso pieno di acqua benedetta con delle monete d’argento dentro. Si posava il vaso su una tomba abbandonata, si accendevano le candele e si pregava  finché nell’acqua non compariva l’immagine del criminale o del ladro. Qualcuno giura che tutto ciò, spaventosamente,  si avverava…

La notte tra il 29 novembre e il 30 è anche la notte durante la quale le ragazze possono conoscere il loro futuro e vedere il futuro sposo, guardando il fondo di un pozzo alla luce di una candela o mettendo 41 semi di mela o dei fiori secchi di basilico sotto il cuscino. Confesso che nella mia vita ho mangiato tante mele solo per raccogliere i 41 semi che avevano il potere di svelare il mio futuro amoroso. Il divertimento più grande era il giorno dopo, quando le amiche si raccontavano i sogni fatti la notte prima. Io mi ricordo uno solo, indimenticabile: quello in cui Chuck Norris si sposava per la settima volta… con me! Dovete ammettere che sant’Andrea ha parecchio senso dell’umorismo!

busuioc andreTra tutte le tradizioni legate alla notte di Sant’Andrea c’è una che, da piccola, mi piaceva più di tutte: era quella che sostituiva il lavoro di qualsiasi meteorologo esperto. Si prendevano 12 cipolle, una per ogni mese dell’anno, si mettevano nella soffitta, lontano dalla luce del sole e si lasciavano lì fino alla vigilia di Natale. Si tagliavano in due e quello che si trovava all’interno si interpretava in questo modo: ogni cipolla che usciva marcia dentro significava un mese di precipitazioni, quelle che avevano germogliato indicavano i mesi propizi per l’agricoltura. Forse c’è poco di scientifico, ma vi assicuro che le previsioni meteo “lette” nelle cipolle erano quasi sempre precise. Così come anche quelle indicate dalla luna: se era piena e il cielo sereno, l’inverno sarebbe stato caldo; se la luna era piena ma il cielo scuro, oppure se pioveva o nevicava, l’inverno sarebbe stato lungo, rigido e con tanta neve.

Mentre scrivo guardo fuori dalla finestra, il cielo è ricoperto di nuvole,  la luna… non la vedo… chissà come sarà quest’inverno… Meglio preparare l’aglio!




1 novembre – “Luminație”, la Festa della Luce

Mia nonna diceva sempre che non puoi sentire di appartenere veramente a un posto se non hai i tuoi morti vicino e se non puoi andare ad accendere una candela sulla loro tomba il 1 novembre.  E’ il giorno in cui in Romania si celebra la Festa dei morti, chiamata anche Luminație, ossia la Festa della Luce. Nel cimitero del paese dove viveva non riposava nessuno dei suoi. I miei nonni erano rifugiati di guerra, sono stati costretti a fuggire dall’Ucraina (all’epoca apparteneva alla Romania), nel febbraio del 1944, dopo l’occupazione sovietica, in carrozza, con una bambina appena nata (mia mamma), hanno attraversato buona parte della Romania, vivendo un po’ dovunque, per poi stabilirsi infine a Mintiu, paese natale di mio nonno, nel cuore della Transilvania.  Un villaggio di 400 anime, troppo piccolo e troppo lontano da tutto quello che mia nonna aveva lasciato in Ucraina, prima di scappare via.  Fratelli, sorelle, genitori, amici… tutto svanito in quella notte del ’44.  Per 30 anni non ci è mai potuta tornare per motivi politici, 30 anni di ricordi che la legavano irrimediabilmente alla sua terra, a migliaia di chilometri di distanza. Il regime comunista aveva deciso di tagliare ogni filo che univa le famiglie separate dalla guerra e dagli accordi cinici con i quali le grandi poteri si divisero l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Non potendo prendersela con la storia, che spesso non lascia scampo, se l’è presa per tutta la vita con mio nonno, “colpevole” di averla amato e di averla portata via e, chissà, forse di averla salvata.

In 30 anni aveva perso tutto della sua vita precedente, tanti amici e parenti da non avere più la forza di contarli. Lontani in vita e lontani anche dopo la morte. E così mia nonna, per una sorta di protesta silenziosa contro le proprie avversità, non andava mai al cimitero del suo paese, nemmeno per accompagnare mio nonno, che,  invece, aveva i suoi genitori e altri parenti seppelliti lì. Piuttosto si chiedeva spesso dove fossero stati sepolti i suoi cari, in quale terra, sotto quale bandiera.

Profira, mia nonna, conduceva così la sua vita, cresceva i propri figli, i nipoti, me, coltivava il suo orto, amava suo marito, si arrabbiava a volte con la Vita e spesso anche con la Morte. Poi arrivava novembre, e solo in quei giorni capivo quanto sofferente potesse essere la vita di questa donna contesa tra l’amore di essere madre e il dolore di essere figlia senza famiglia.

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Nel paese c’era un vero rituale che tutti seguivamo: si andava al cimitero per preparare le tombe, a tagliare l’erba, pulivamo tutto intorno, piantavamo tanti crisantemi colorati. Passavamo giornate intere a curare quel posto, sulla piccola collina, alle spalle della chiesa, in mezzo ad un frutteto. In primavera era un tripudio di fiori bianchi e rosa che finivano poi a terra in un enorme tappeto colorato che avvolgeva come in un abbraccio le croci. Andavamo al cimitero anche noi, i bambini, era l’occasione per stare insieme e partecipare, a modo nostro, ai preparativi della festa. Conoscevamo a memoria tutte le lapidi, i nomi incisi sulle croci, sceglievamo quali erano le più belle e ci piaceva guardare le foto sulle croci, di quelli che non c’erano più e di quelli che erano ancora vivi, ma avevano provveduto, da tradizione, ad organizzarsi per la dipartita.

Era tutto così naturale,  la morte non ci spaventava,  anche perché crescevamo in un tempo scandito dall’alternarsi dalle stagioni, e, soprattutto, dai grandi eventi della vita del piccolo paese: nascite, battesimi, matrimoni e funerali. Era un mondo essenziale e semplice, in cui nessuno pensava che si dovesse nascondere o addolcire una verità cruda come la morte. Eravamo in prima fila ai matrimoni, a saltare, ballare o suonare insieme ai musicisti del paese, a gironzolare intorno alla sposa, mentre la preparavano per il grande giorno, e sempre in prima fila anche ai funerali, a guardare e ed ascoltare affascinati le donne vestite di nero, bocitoare, le cosiddette prefiche (le nostre pero non venivano pagate) quelle che raccontavano, tra un pianto e l’altro, la vita del defunto, come se fosse stato il romanzo più accattivante del mondo. Accompagnavamo il corteo funebre fino al cimitero e nessuno ci allontanava quando la barra veniva calata nella buca e si concludeva la sepoltura. Non mancavamo neanche alla “festa” che seguiva, a cui partecipava tutto il paese, prete incluso, dove si mangiava tanto e si beveva di meno, visto che ad ogni bicchiere alzato si versavano, da tradizione, alcune gocce a terra, per l’anima del defunto.

Quello che mi affascinava di più di tutti i passaggi obbligati del rituale legato alla morte,  era la veglia di tre giorni e tre notti, durante la quale gli amici del defunto si davano incessantemente il cambio, giocavano a carte, mangiando, bevendo,  raccontando aneddoti su di lui, facendogli compagnia senza lasciarlo mai solo. Nella credenza popolare, se il defunto veniva abbandonato, arrivava nell’oltretomba smarrito e triste. Mi ricordo che guardavo questi uomini seduti intorno alla barra aperta, che giocavano a carte e alzavano spesso un bicchiere di țuică (grappa) e brindavano per l’amico scomparso, piangevano e poi scoppiavano a ridere, mentre ricordavano qualcosa di divertente, e gli sentivo rivolgersi spesso al defunto con le parole “Ti ricordi quando…?”… Mi sembrava tutto così strano ma teneramente allegro.

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Mi rendo conto di quanto sia difficile capire un simile rituale per chi è estraneo alla nostra cultura, nella quale il rito funebre è un mix di paganesimo dacico* e di sacro ortodossismo. Non è stato semplice neanche per mio marito quando ha partecipato, qualche anno fa, alla festa dei Morti nel piccolo cimitero di Mintiu, dove è stata infine seppellita mia nonna, mio nonno e altri parenti. Quando abbiamo deciso di andare e di portare anche Matteo, nostro figlio, ha temuto che sarebbe stata un’esperienza troppo impegnativa, dal punto di vista emotivo, per un bambino di 5 anni. Io lo tranquillizzavo e gli ripetevo che la Festa dei Morti non è per niente una commemorazione, ma una celebrazione, ma non era facile spiegare tutto ciò. Si era convinto da solo a breve, quando, una volta arrivato nel cimitero, ha visto il via vai di gente, che si fermava tra le tombe in attesa di visite e visitando a loro volta le tombe degli amici o parenti. La gente si salutava, si abbracciava, molti di quelli che vivevano lontano approfittavano per tornare in paese una volta all’anno, il 1 novembre. E come in una sorta di mercatino rionale, ognuno invitava gli altri a fermarsi davanti alle tombe della propria famiglia, per bere un bicchiere o mangiare un dolcetto, per l’anima dei defunti.  Le tombe stesse si animavano, diventando all’occorrenza tavole da pranzo, banconi di un bar, tutto il cimitero si trasformava in un luogo di un’allegra festa conviviale in cui l’elemento predominante era incredibilmente la Vita.  Il prete passava tra le tombe e celebrava brevi messe per ricordare quelli che non c’erano più tra di noi.  I bambini correvano allegri giocando a nascondino, dietro le croci di pietra, rafforzando ancora di più l’idea che quella giornata era la festa della luce e della vita. Per tutto il giorno, le candele rimanevano accese e al calar della notte il cimitero si trasformava in uno spettacolo incredibile di sconfinate luminarie che animavano la notte fino all’alba successiva. Nessuna croce rimaneva al buio quella notte, perché la luce delle candele accompagnava le anime scese tra noi a ritrovare la strada del ritorno.

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*Il modo in cui si celebra in Romania la Festa dei Morti, il I novembre, ricorda inevitabilmente i riti degli antichi daci, gli antenati del popolo rumeno, che credevano nell’immortalità dell’anima e festeggiavano la morte come un passaggio ad una vita migliore, dove li aspettava il loro dio, Zamolxes. I daci ballavano e cantavano quando moriva qualcuno e piangevano quando nasceva un bambino. Con una simile visione sulla morte, si può spiegare anche perché l’unico Cimitero allegro del mondo si trovi in Romania, a Săpânța, un luogo dove si ride in faccia morte e si trasforma in arte un modo a dir poco originale di esorcizzare la morte. 




Eu de ce (să) votez?

Am mers la vot la toate alegerile, în Italia și în România, la cele locale, parlamentare, euro-parlamentare, prezidențiale (doar în România, pentru că în Italia președintele e ales de către Parlament);  mi-am exprimat opinia la referendumul italian, din 2011,  având ca temă privatizarea serviciilor hidrice (care au rămas publice),  dar și construirea unor noi centrale nucleare (care nu s-au mai construit).  Am participat și în 2012, la referendumul din România privind suspendarea președintelui Băsescu.  Uneori am câștigat, alteori am pierdut, am fost, pe rând, fericită, mulțumită că mi-am putut exprima, în mod concret,  o opinie, convinsă că votul meu era important, nu vital sau indispensabil, dar important; am fost, apoi, furioasă și dezamăgită, atunci când am pierdut, a doua zi  juram că nu o să mai votez niciodată, dar am recidivat mereu. Pentru că nu am crezut niciodată, cu adevărat, că e totuna,  cu sau fără votul meu. Numiți-mă naivă sau arogantă, dar eu am fost întotdeauna convinsă că votul meu contează. Credeți-mă că, atunci când,  după alegerile euro-parlamentare din primăvara lui 2014, Partidul Democrat al premierului Matteo Renzi a obținut un rezultat istoric, 41 % din voturi, cel mai bun procent obținut de un partid în Europa…am fost euforică, pentru că am simțit că am contribuit și eu la  scrierea unei pagini de istorie.

Tocmai de aceea nu înțeleg de ce e nevoie de toate campaniile care se desfășoară în România, prin care suntem invitați, sfătuiți, împinși pe la spate să mergem să votăm. Știu că o să spuneți că eu nu trăiesc în România și nu pot înțelege de ce oamenii sunt scârbiți, că am plecat și am lăsat țara de izbeliște, că nu ar trebui să-mi mai pese de ce se întâmplă la noi, că e ușor să fii spectator, că oricine poate da sfaturi,  dar nu toți  vor să le audă.  Eu nu mă simt doar spectator, pentru că mă leagă de România prea mulți ani trăiți acolo, prea multe bucurii, speranțe, izbânzi, mari sau mici,  prea multe dezamăgiri și eșecuri pentru ca niște politicieni efemeri să poată să mă facă să uit tot.  Adevărul e că, pentru nimic în lume, nu vreau să le dau satisfacția că am ajuns să nu-mi mai pese de România. Nu mă simt spectator și din deformație profesională. Am fost ziaristă și am făcut câteva campanii electorale, când lucram la Cd Radio, în Cluj. O să mă credeți dacă vă spun că mi-e dor de campaniile electorale de acum…ceva ani, când mă pregăteam pentru talk-show-uri citind înainte platforme și programe electorale, încercând să înțeleg ideologii politice?  Erau anii în care am cunoscut sute de tineri entuziaști, idealiști, plini de energie și de idei, capabili să organizeze mitinguri electorale și să umple Teatrul Național din Cluj, fără nici un sprijin logistic din partea vreunui mare partid.  Aceiași tineri care erau în stare să stea o noapte întreagă, la o bere,  să polemizeze cordial despre valorile de dreapta și cele de stânga, din politică,  și să și creadă în ele. Nu mă întrebați pe unde sunt acum tinerii visători,  care vroiau să schimbe lumea,  că nu o să vă spun. Erau anii în care oameni de valoare, intelectuali, unii dintre ei profesorii mei de la Filologie, acceptau să intre în guvern, fără să aparțină vreunui partid,  din dorința de a construi ceva, un proiect care să dureze, fără ambiții personale și fără să intre în rivalități politice sterile.  Era perioada în care Ion Vartic era subsecretar de stat în Ministerul Culturii și crea,  la Cluj,  Facultatea de Teatru, iar Marian Papahagi era scretar de stat în Ministerul Învățământului și redeschidea Accademia di Romania la Roma. Era perioada în care exista,  încă,  societatea civilă iar oameni ca Andrei Pleșu sau Gabriel Liiceanu erau niște repere morale și intelectuale pentru mulți.

 Acum despre ce ar vorbi, oare, tinerii aceia visători, la o bere?  Despre dosare, arestări, interceptări,  despre trafic de copii, despre corupți și despre anticorupție, despre DNA (care există doar în Slovenia, Croația și Letonia, dintre toate țările UE). Despre câte case are un candidat sau altul și câte sunt declarate. Despre ce scrisori i-a mai scris Liiceanu lui Ponta. Despre agenți secreți sub acoperire și fără dovezi și despre baroni locali descoperiți,  cu dovezi.  Cu siguranță discuțiile ar fi mult mai aprinse și mai interesante, iar polemicile ar fi mai puțin cordiale, pe principiul “democratic” : “dacă nu ești cu noi,  ești împotriva noastră” sau “cine nu gândește ca noi, e împotriva noastră”.   Discuțiile ar fi, poate, mai colorate în limbaj, dar mai opace în idei.

Zilele trecute vorbeam cu un prieten ziarist, care încerca să mă convingă că tot ce se întâmplă acum în România, cu toți corupții care defilează cu cătușele la mâini, în direct, la toate televiziunile, e exact ceea ce s-a întâmplat în Italia, în anii 90, când operațiunea Mani Pulite a produs un adevărat cutremur în viața politică.  Am vrut să-i atrag atenția asupra a două detalii tehnice, cred, importante: în 17 februarie 1992,  Mario Chiesa, un respectat membru al Partidului Socialist Italian, a fost arestat de către procurorul Antonio Di Pietro, în momentul în care lua o mită de 7 milioane de lire, deci, în urma unui flagrant. Dat fiind faptul că Italia era în plină campanie electorală, Di Pietro a decis dă mențină secretul absolut asupra anchetei și să aștepte sfârșitul alegerilor din aprilie. Abia după aceea,  a urmat un val fără precedent de arestări, interogatorii, sinucideri, demisii, care au dus la dispariția principalelor partide politice, la apariția altora ( cel mai important, partidul extremist Liga Nordului) și la sfârșitul primei republici. Și, dacă tot vorbeam despre arestări și procese, am simțit nevoia să-i spun că am văzut foarte puține arestări în direct, de când sunt în Italia, și atunci a fost vorba despre unii dintre cei mai periculoși boși ai mafiei. Îi înțeleg, totuși, pe procurorii care arestează cu zel, inspirați, poate,  de imaginea eroică a colegilor italieni de acum 22 de ani, convinși că vor schimba și ei lumea.  Nu știu dacă ar trebui să știe că șeful echipei de procurori care a condus ancheta Mani Pulite a declarat, de curând,  că totul a fost o “ocazie pierdută”.  Sau că procurorul Antonio di Pietro, simbolul luptei împotriva corupției, a demisionat din magistratură, în 1994, pentru a intra în politică. Mă îndoiesc, însă, că procurorii noștri de la DNA sunt atrași în vreun fel de lumea politică (sau poate că da?), așa că nu cred că au vreo relevanță astfel de informații și nici nu aș vrea să fiu răstălmăcită.

Mă tem că nu am dat răspunsuri convingătoare la întrebarea “Eu de ce votez?”. Poate că ar fi fost mult mai simplu să spun că votez pentru că sunt convinsă că nu politicienii efemeri, nici politrucii mărunți și nici procurorii zeloși pot decide pentru mine, în locul meu, sau al tău. Votez pentru că îmi pasă de România și, vă rog, nu-mi spuneți că eu nu pot înțelege ce se întâmplă în țară, atâta vreme cât vin acasă doar în concedii,  sau că nu ar trebui să-mi mai pese de tot ce se întâmplă,  în condițiile în care nici măcar nu știu dacă mă voi întoarce vreodată în România. Votez pentru că sunt convinsă că, în Italia, istoria din ultimii 20 de ani nu au scris-o procurorii sau politicienii, ci italienii de rând care au desființat marile partide politice corupte mergând la vot, în 1992, tocmai pentru că au înțeles că era cea mai eficientă formă de protest.